Intervento dell' Amb. Francesco Paolo Fulci

Forum distrettuale

 
 

Le Nazioni Unite dopo l’11 Settembre

Desidero anzitutto ringraziare il Rotary Club di Augusta ed il suo Presidente, Dottor Giorgio Bemardi, per avermi invitato a partecipare a questo "Forum" sul tema "Politica, Economia e Società dopo 1'11 settembre".

Un ringraziamento particolare devo inoltre a Carlo Marullo di Condojanni, amico da antichissima data, e col quale ho avuto il privilegio di collaborare quand'ero Ambasciatore d'Italia all'ONU a New York, in un'impresa coronata da successo: l'ammissione del Sovrano Militare Ordine di Malta quale Osservatore Permanente presso le Nazioni Unite. Successo ottenuto malgrado l'ostilità preconcetta di quattro, e la tiepidezza ostentata del quinto, dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Il tema che mi è stato proposto per l'odierno incontro è "La politica dopo 1'11 settembre". È un tema ampio, vastissimo, che richiederebbe ore per la sua completa trattazione. Io mi limiterò quindi ad affrontarlo da una più ristretta, precisa angolazione basata sulla mia ultima esperienza professionale: i sette anni come Rappresentante Permanente d'Italia presso le Nazioni Unite, dal 1993 al 2000.

L'azione terroristica condotta contro le Torri Gemelle di New York, 1'11 settembre 2001, ebbe tre conseguenze che probabilmente gli stessi terroristi non si aspettavano:

 

a) Il crollo dei due grattacieli provocò oltre 3000 morti, molte più vittime di quanto non si sarebbe potuto immaginare. Nessuno aveva previsto che le due strutture si sarebbero afflosciate a1 suolo,  autodistruggendosi un piano dopo l'altro, in una sorta di braciere apoca1ittico. Nessuno immaginava che il calore avrebbe liquefatto, una dopo l'altra, le torri che sino a poche ore prima svettavano orgogliosamente nello "skyline" di Manhattan. Un eccidio, un vero e proprio atto dì guerra, insomma.

b) Vi fu una brusca accelerazione del dibattito a1le Nazioni Unite, sulla necessità di combattere il terrorismo invocando l'art. 51 dello Statuto. Tale articolo reca testualmente: "…nessuna disposizione di questo Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso abbia luogo un attacco armato contro un Membro della Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale…".

c) Si creò nel Governo e nel popolo americano una convinta e fortissima determinazione a punire gli autori del misfatto e ad adoperarsi in tutti i modi per prevenire la ripetizione di simili atroci accadimenti. C'è una foto che è divenuta un simbolo per questa assoluta determinazione americana: ritrae grappoli di uomini e donne intrappolati dal fuoco delle torri, che si tengono per mano e si tuffano nel vuoto per andare incontro ad una morte non meno atroce. Davanti a quella foto l'America ha giurato, e continua a giurare: "Mai più!".

 

Cercherò di analizzare queste tre conseguenze.

 

Anzitutto la prima, la portata cioè dell' attentato. Come si ricorderà esso era stato premeditato, in sincronia, contro tre obiettivi: i primi due erano le Torri Gemelle a New York e il Pentagono a Washington. Un terzo attentato. di cui non è mai stato chiaro il bersaglio - forse la centrale nucleare di Three Miles Island o il Dipartimento di Stato o la stessa Casa Bianca - andò fortunatamente a vuoto, per il coraggio dei passeggeri dell'aereo preso in ostaggio, che si immolarono per prevenirlo.

Dei tre attentati, quello che ebbe il più forte impatto sull' opinione pubblica, non solo americana ma del mondo intero, fu l'attacco contro le Torri Gemelle. Era dai tempi della guerra civile americana, cioè dal 1865, che non si era registrato sul territorio continentale statunitense un episodio di guerra guerreggiata, come quella dell'11 settembre. Va ricordato che già nel 1993 vi era stato, da pane di un gruppo islamico, il tentativo di far esplodere una carica di dinamite nei sotterranei dei due edifici.  Tentativo fortunosamente sventato in extremis, ma che aveva chiaramente indicato come nelle torri si scorgesse un simbolo della potenza economica americana, da colpire e umiliare: colpendole si sarebbe ottenuto il massimo effetto mediatico nel mondo intero. Il risultato psicologico fu diametralmente opposto a quello che probabilmente i terroristi si attendevano: anziché demoralizzarsi, gli americani reagirono con uno scatto di orgoglio nazionale senza pari. Mai si erano viste tante bandiere americane a Manhattan e in tutta l'America, tante composte manifestazioni di solidarietà e di lutto collettivo. come subito dopo l'attentato. Mai si era registrata una maggiore ondata di simpatia verso gli USA in rotte le altre parti del mondo.

 

Vengo alla seconda conseguenza. Alle Nazioni Unite che, per volere dell' America, hanno sede proprio a New York, l'impatto non fu diverso.

Per anni, anzi per decenni, si era discusso invano sul significato del termine "terrorismo"" e sulle risposte da dare al fenomeno. Soprattutto permaneva irrisolto, l'antico dilemma: una lotta di liberazione legittima il terrorismo, o piuttosto il terrorismo delegittima una lotta di liberazione? Quali misure gli Stati sono tenuti ad adottare per combattere il terrorismo e per contrastare i gruppi ed i Paesi accusati di fomentare o sostenere atti terroristici?

Sino a tutti gli anni ottanta all'ONU era prevalsa la tesi che l'art. 51 dello Statuto, che prevede il legittimo diritto all’autodifesa nel caso di  attacchi esterni, non potesse essere invocato per atti di terrorismo. Si era addirittura vista, ad esempio, l'Assemblea Generale dell'ONU condannare la ritorsione americana dei bombardamenti aerei effettuati dagli USA contro la Libia, dopo l'attentato ad una discoteca di Berlino, nel 1986.

La situazione cominciò a mutare poco dopo il tramonto del mondo bipolare nel 1992: quell' anno, per la prima volta il Consiglio di Sicurezza impose sanzioni contro la Libia, con la risoluzione 748, perché non consegnava alcuni sospetti terroristi, coinvolti nell'attentato contro l'aereo Lockheed precipitato in Scozia.

Dopo quella risoluzione sul terrorismo, altre ne seguirono, sempre da parte del Consiglio di Sicurezza. Due, nel 1996, riguardarono il Sudan, contro cui si comminavano sanzioni perché accusato di aver dato asilo a chi aveva allentato alla vita del Presidente egiziano, Mubarak, durante una visita di questi in Etiopia. Nel 1999, poi, era stata la volta del regime dei Talebani, in Afghanistan, rei di continuare ad accogliere terroristi nel loro territorio ed anzi di ospitare campi per l' addestramento dei medesimi.

Già nel gennaio del 1998 e nel gennaio del 2000, inoltre, erano state firmate a New York due convenzioni: la prima per la soppressione degli attentati con esplosivo e la seconda per la soppressione del finanziamento del terrorismo.

Cosa le aveva determinate? Certo, come già detto, da un lato il mutato clima internazionale con la fine del bipolarismo. Ma vi era stato anche un altro motivo, più specifico: nel 1993, quando si era scoperto "in extremis" il primo attentato contro le Torri Gemelle, era altresì emerso che analogo attentato era in avanzata fase di preparazione, da parte dello stesso gruppo e con le medesime modalità, contro il Palazzo di Vetro che a New York ospita il Quartiere Generale delle Nazioni Unite. Davanti all'imminente pericolo terrorista, la comunità internazionale cominciava a svegliarsi. Ma si muoveva ancora timidamente, come dimostrato dal fatto che le stesse due convenzioni anti-terrorismo venivano inizialmente ratificate solo da una manciata di Paesi.

Il drammatico colpo di barra si produsse invece il 12 settembre 2001, il giorno dopo l'abbattimento delle torri gemelle.

Quel giorno la stessa Assemblea Generale - 189 Paesi membri delle Nazioni Unite cioè e non soltanto i 15 del Consiglio di Sicurezza - votò una risoluzione in cui condannava "…inequivocabilmente, e nei termini più forti, gli orrendi attacchi terroristici…" del giorno prima a New York, Washington e in Pennsylvania.

Per la prima volta l'Assemblea Generale, passando sopra alle polemiche di tanti decenni, e con voto assolutamente unanime - compresi quindi quelli di Stati sospetti di simpatie per i terroristi - riconosceva ad ogni Stato membro "il diritto inerente alla difesa individuale, o collettiva, in base allo Statuto contro il terrorismo". In sostanza, cioè, si reputava possibile il ricorso all'art. 51 dello Statuto anche per combattere il fenomeno del terrorismo internazionale, considerando quest'ultimo alla stregua di una minaccia alla pace ed alla sicurezza. Inoltre, l'Assemblea Generale, dopo aver espresso la propria solidarietà alle vittime, alle famiglie, al popolo ed al Governo americano, incitava tutti gli Stati membri a collaborare urgentemente per assicurare alla giustizia coloro che avevano perpetrato, organizzato o sponsorizzato gli attentati e coloro che li avevano aiutati o assistiti nella barbara impresa.

Dal canto suo il Consiglio di Sicurezza, l'organo delegato dallo Statuto al mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo, non perdeva tempo. Il 28 settembre il Consiglio, sempre all'unanimità, adottava la risoluzione 1373 con cui dichiarava l'app1icazione nella fattispecie del Capitolo VII dello Statuto (che è quello che prevede il ricorso anche all'uso della forza per far applicare le risoluzioni del C.d.S.) e chiedeva agli Stati membri:

 

a)      di prevenire e bloccare il finanziamento di qualsiasi attività terroristica;

b)      di rendere reato penale qualsiasi attività finanziaria connessa o riconducibi1e al terrorismo;

c)      di congelare immediatamente tutti i fondi. beni o risorse di persone. enti o istituti che commettono, o cercano di commettere o facilitano la commissione di atti terroristici;

d)      di sopprimere e punire qualsiasi attività volta al reclutamento di nuovi membri di gruppi terroristici o ad armarli;

e)      di segnalare rapidamente complotti terroristici di cui gli Stati membri fossero venuti a conoscenza mediante scambi di informazioni, di darsi reciproca assistenza giudizi aria e di stabilire efficaci controlli alle frontiere per bloccare i movimenti dei terroristi;

f)        di istituire un "Comitato anti-terrorismo", composto da tutti e 15 i membri del C.d.S., col compito di prendere tutte le misure possibili per assicurare la piena applicazione della risoluzione.

 

Quest'ultima misura venne subito messa in pratica. Nel giro di due mesi, ben 109 Stati - un vero record per i tempi consueti del l 'ONU - si impegnarono per iscritto col Comitato anti-terrorismo del C.d.S - ad applicare la risoluzione 1373, e designarono i rispettivi funzionari responsabili al riguardo. Certo, le difficoltà non mancarono e non mancano. Ad esempio, vari Paesi in via di sviluppo fecero presente che con le scarse risorse e strutture operative a loro disposizione, difficilmente avrebbero potuto controllare i flussi finanziari illeciti. Alcuni Paesi occidentali hanno al riguardo promesso ai Paesi in Via di  Sviluppo  assistenza e collaborazione.  

Un' altra imprevista conseguenza degli attentati di settembre si ebbe nel Congresso Americano. Il Congresso era stato sino ad allora assai tiepido e sospettoso verso le Nazioni Unite, nel timore che un'adesione incondizionata ad esse ed al loro operato avrebbe potuto comportare lesioni di sorta alla sovranità nazionale americana: da qui la grande diffidenza dei legislatori americani rispetto a problemi fondamentali come i contributi al bilancio o la partecipazione alle operazioni di pace dell'ONU, nonché la mancata ratifica di numerosi trattati e convenzioni stilati in sede ONU. Stante la necessità di avere ora la piena ed incondizionata solidarietà del mondo, di colpo anche il Congresso americano mutò atteggiamento verso le Nazioni Unite: la questione dei contributi fu rapidamente appianata. Per molte convenzioni si autorizzò il Presidente ad effettuare la ratifica.

In breve, il massiccio attacco terroristico aveva, nello spazio di un mattino, ribaltato non solo all'ONU, ma anche a Washington, posizioni ed atteggiamenti consolidati dal tempo, facendo emergere ed identificando nel terrorismo internazionale la nuova, grave minaccia per la comunità internazionale: un fenomeno di proporzioni allarmanti, da contrastare e combattere con assoluta priorità e con tutti i mezzi a disposizione, non esclusi quelli militari.

E l'Italia? Per il nostro Paese la fedeltà all'ONU ha costituito una costante, uno dei quattro grandi pilastri su cui si regge la nostra politica estera sin dai tempi del dopoguerra, gli altri tre essendo l'Europa, la NATO ed il Mediterraneo.

Anche l'Italia, quindi, si è fortemente impegnata a sostenere l'ONU nella lotta al terrorismo, varando subito apposite leggi tra cui l'art. 270 bis del Codice Penale che sanziona ora la "associazione con finalità di terrorismo internazionale"; rafforzando gli apparati di sicurezza e di giustizia nonché i controlli finanziari; creando strutture "ad hoc" volte a meglio prevenire e combattere il terrorismo internazionale. Delle 12 principali convenzioni ONU contro il terrorismo l'Italia ne ha già ratificate 11. II Parlamento ha già in corso di esame la dodicesima, quella del 9 gennaio 1998, per la repressione degli attentati terroristici con esplosivo. L'Italia è, e resta, fermamente convinta inoltre che il fenomeno vada combattuto non solo nelle sue manifestazioni, ma anche e soprattutto a monte, nelle sue cause originarie.

Vengo alla terza conseguenza dell'11 settembre. La convinta, fermissima determinazione ingeneratasi nel Governo e nel popolo americano, che di stragi come quella dell'11 settembre non avrebbero dovuto verificarsene mai più. Da qui la decisione di attaccare, con l'aiuto di alcuni alleati, con l'avallo unanime dell'ONU e con l'appoggio pertanto dell'intera comunità internazionale, il regime talebano in Afghanistan. Era infatti tale regime, già ammonito nell'ottobre 1999 dal Consiglio di Sicurezza per ospitare basi di addestramento dei terroristi, colpevole di aver dato asilo e sostenuto Bin Laden e la sua organizzazione, Al Qaeda, responsabile degli attentati dell' Il settembre. Si sa cosa accadde.

 Anche allora, quanti dubbi alla vigilia!

Comunque l'attacco americano-britannico venne sferrato in forze e, in poche settimane, condusse al crollo totale del regime talebano. Ma Bin Laden riuscì a sfuggire alla cattura.

A quella operazione in Afghanistan - definibile di "peace enforcement" e cioè di imposizione della pace, diversa quindi dal "peace keeping", che della pace prevede solo il mantenimento prima che scoppi un conflitto - ne è seguita un'altra di "peace building" o "nation building", in cui anche i nostri alpini sono - come noto - direttamente coinvolti ed impegnati.

Ad essi, ai nostri alpini in Afghanistan, vorrei rivolgere un caloroso saluto e incoraggiamento per gli straordinari servigi che stanno rendendo alla causa della pace nel mondo ed a primari interessi nazionali del nostro Paese.

Ma la determinazione americana non finì con la presa di Kabul e delle altre roccaforti talebane. Suscitava non poche preoccupazioni a Washington la situazione in Iraq, il cui Governo era sospettato di continuare a violare le condizioni amnistiziali del 1991 e le successive risoluzioni ONU che gli imponevano un disarmo totale per quanto riguardava le anni di distruzione di massa. Armi che tra l'altro potrebbero facilmente cadere in mano a terroristi, con le conseguenze che tutti possono immaginare. Di fatto gli americani sono andati persuadendosi sempre di più della necessità di una guerra preventiva, se l'Iraq non avesse immediatamente proceduto, senza ulteriori dilazioni o procrastinazioni, a privarsi di tutte le armi di distruzione di massa ancora in suo possesso - nucleari, biologiche, chimiche e dei vettori idonei a trasportarli oltre una certa gittata - nonché della capacità di fabbricane.

A quel punto, però l'ONU, o meglio la comunità internazionale, si è spaccata in due schieramenti contrapposti.

Da un lato gli Stati Uniti ed altri (specie Gran Bretagna, Spagna, Australia, ecc) affermavano che l'attuale Governo dell'Iraq, malgrado i suoi ripetuti dinieghi, continuava a mantenere cospicui arsenali di armi di distruzione di massa, e che occorreva quindi procedere dall'esterno al disarmo dell’Iraq, mediante una guerra preventiva.

Un'altra parte della comunità internazionale invece affermava che bisogna lasciare più tempo agli ispettori dell'ONU per accertare l'effettiva realtà delle cose, e ricorrere alla guerra solo come ultima., "extrema ratio". Questa divisione di opinioni passava all'interno della NATO e della stessa Unione Europea ed è divenuta motivo di giuste preoccupazioni anche per il futuro di entrambe queste Organizzazioni le cui sorti e i cui destini tanto stanno giustamente a cuore a noi europei.

Tutti abbiamo seguito con trepidazione gli avvenimenti che sono seguiti.

La lunga requisitoria di Colin Powell al Palazzo di Vetro, e i successivi discorsi suoi e del Presidente Bush, erano apparsi come una messa in mora non solo dell'Iraq, ma dello stesso Consiglio di Sicurezza.

In sostanza Powell e Bush dicevano: "il regime irakeno ha già ampiamente violato le risoluzioni che concernono le sue armi di distruzione di massa. Ecco le prove". Gli americani, e la "coalition of the willing" che li sostiene, ritenevano quindi che ormai potessero, anzi dovessero, scattare ]e "gravi conseguenze" previste dalle risoluzioni stesse in caso di inadempienza. "Gravi conseguenze" significa, in questo caso, la guerra. E, purtroppo, proprio in queste ultime ore, la guerra è scattata. La speranza, a questo punto, è che il conflitto sia il più breve, e il meno cruento possibile, soprattutto per quanto concerne le popolazioni civili innocenti.

Si è molto discusso, e si continua discutere, se sotto il profilo del diritto internazionale il ricorso all'uso della forza per disarmare Saddam Hussejn sia o meno legittimo. Vi sono due scuole di pensiero: secondo la prima, tre precedenti risoluzioni, adottate dallo stesso Consiglio di Sicurezza, avevano autorizzato l'uso della forza. L'altra scuola di pensiero sostiene invece che, in base agli art. 24 e 25 dello Statuto, solo al Consiglio di Sicurezza compete la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

Del resto se le tre risoluzioni precedenti fossero state ritenute sufficienti, perché si sarebbe insistito per una nuova autorizzazione formale da parte del Consiglio, e quando è apparso evidente che l'autorizzazione non sarebbe venuta, si è ritirato il progetto di risoluzione?

Si dice anche, da tempo, che la struttura del Consiglio di Sicurezza continua ad essere l'espressione dell'ordine dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale, ma che oggi gli equilibri di potere nel mondo sono cambiati, che occorre quindi una riforma radicale del Consiglio che lo renda più rappresentativo e più in linea con i tempi.

Tutto sacro santamente vero.

Provate però a fare questa riforma, che dia più peso a Paesi come India, Brasile, Egitto, Nigeria, Pakistan, Indonesia. È chiaro, infatti. che per far posto a questi Paesi si dovrà restringere la presenza in Consiglio dei Paesi Europei, trasformando ad esempio l'attuale seggio detenuto da Francia e Gran Bretagna in seggio comune dell'Europa unita. Sono profondamente convinto che finché ciò non avverrà, la riforma del Consiglio di Sicurezza dell'ONU resterà una chimera.

Bisogna allora rassegnarsi? Non credo proprio: tante volte ho suggerito che si cominci, anche al Consiglio di Sicurezza, con la politica dei piccoli passi che frutti così fecondi e copiosi ha dato per la graduale costruzione dell'Europa. Si cominci, ad esempio, col creare un "embrione di seggio europeo" accreditando, ad esempio, nelle delegazioni elette di Paesi dell'Unione in C.d.S. - in questo momento Germania e Spagna  - funzionari rappresentanti di Mr. PESC o della Commissione o dei Paesi che esercitano la Presidenza di turno dell'Unione: l'Europa comincerebbe così finalmente con l'avere occhi ed orecchi propri in seno al Consiglio di Sicurezza.

Per tornare alla guerra in corso in Iraq, l'esito appare scontato, data la disparità delle forze in campo.

La speranza è quindi che si tratti di un conflitto il più rapido e il meno cruento possibile, specie per le innocenti popolazioni civili interessate. E poi?

Poi sempre all'ONU bisognerà tornare: per far fronte alle esigenze umanitarie (basti pensare alle masse di profughi, per raggiungere e gestire la pace e la ricostruzione. Verrà così in qualche modo ristabilita la legittimità internazionale. E nuovamente riconosciuto il ruolo insostituibile delle Nazioni Unite.

E accaduto per il Kossovo. Penso che accadrà anche dopo l'invasione dell'Iraq.