Le
Nazioni Unite dopo l’11 Settembre
Desidero
anzitutto ringraziare il Rotary Club di Augusta ed il suo Presidente, Dottor
Giorgio Bemardi, per avermi invitato a partecipare a questo "Forum"
sul tema "Politica, Economia e Società dopo 1'11 settembre".
Un
ringraziamento particolare devo inoltre a Carlo Marullo di Condojanni, amico da
antichissima data, e col quale ho avuto il privilegio di collaborare quand'ero
Ambasciatore d'Italia all'ONU a New York, in un'impresa coronata da successo:
l'ammissione del Sovrano Militare Ordine di Malta quale Osservatore Permanente
presso le Nazioni Unite. Successo ottenuto malgrado l'ostilità preconcetta di
quattro, e la tiepidezza ostentata del quinto, dei cinque membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il tema che mi è stato proposto
per l'odierno incontro è "La politica dopo 1'11 settembre". È
un tema ampio, vastissimo, che richiederebbe ore per la sua completa
trattazione. Io mi limiterò quindi ad affrontarlo da una più ristretta,
precisa angolazione basata sulla mia ultima esperienza professionale: i sette
anni come Rappresentante Permanente d'Italia presso le Nazioni Unite, dal 1993
al 2000.
L'azione terroristica condotta
contro le Torri Gemelle di New York, 1'11 settembre 2001, ebbe tre conseguenze
che probabilmente gli stessi terroristi non si aspettavano:
a) Il crollo dei due grattacieli
provocò oltre 3000 morti, molte più vittime di quanto non si sarebbe potuto
immaginare. Nessuno aveva previsto che le due strutture si sarebbero afflosciate
a1 suolo, autodistruggendosi
un piano dopo l'altro, in una sorta di braciere apoca1ittico. Nessuno immaginava
che il calore avrebbe liquefatto, una dopo l'altra, le torri che sino a poche
ore prima svettavano orgogliosamente nello "skyline"
di Manhattan. Un eccidio, un vero e proprio atto dì guerra, insomma.
b) Vi fu una brusca
accelerazione del dibattito a1le Nazioni Unite, sulla necessità di combattere il terrorismo
invocando l'art. 51 dello Statuto. Tale articolo reca testualmente: "…nessuna
disposizione di questo Statuto pregiudica il
diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso abbia luogo un
attacco armato contro un Membro della Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio
di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per il mantenimento della pace
e della sicurezza internazionale…".
c) Si creò nel Governo e nel
popolo americano una convinta e fortissima determinazione a
punire gli autori del misfatto e ad adoperarsi in
tutti i modi per prevenire la ripetizione di simili atroci accadimenti. C'è una
foto che è divenuta un simbolo per questa assoluta determinazione americana:
ritrae grappoli di uomini e donne intrappolati dal fuoco delle torri, che si
tengono per mano e si tuffano nel vuoto per andare incontro ad
una morte non meno atroce. Davanti a quella foto
l'America ha giurato, e continua a giurare: "Mai più!".
Cercherò
di analizzare queste tre conseguenze.
Anzitutto
la prima, la portata cioè dell' attentato. Come si ricorderà esso era stato
premeditato, in sincronia, contro tre obiettivi: i primi due erano le Torri
Gemelle a New York e il Pentagono a Washington.
Un terzo attentato. di cui non è mai stato
chiaro il bersaglio - forse la
centrale nucleare di Three Miles Island o il Dipartimento di Stato o la stessa
Casa Bianca - andò
fortunatamente a vuoto, per il coraggio dei passeggeri dell'aereo preso in
ostaggio, che si immolarono per prevenirlo.
Dei tre
attentati, quello che ebbe il più forte impatto sull' opinione pubblica, non
solo americana ma del mondo intero, fu l'attacco contro le Torri Gemelle. Era
dai tempi della guerra civile americana, cioè dal 1865, che non si era
registrato sul territorio continentale statunitense un episodio di guerra
guerreggiata, come quella dell'11 settembre. Va ricordato che già nel 1993 vi
era stato, da pane di un gruppo islamico, il tentativo di far esplodere una carica di dinamite nei
sotterranei dei due edifici. Tentativo
fortunosamente sventato in extremis, ma che aveva chiaramente
indicato come nelle torri si scorgesse un simbolo della potenza economica
americana, da colpire e umiliare: colpendole si sarebbe ottenuto il massimo
effetto mediatico nel mondo intero. Il risultato psicologico fu diametralmente
opposto a quello che probabilmente i terroristi si attendevano: anziché
demoralizzarsi, gli americani reagirono con uno scatto di orgoglio nazionale
senza pari. Mai si erano viste tante bandiere americane a Manhattan e in tutta
l'America, tante composte manifestazioni di solidarietà e di lutto collettivo.
come subito dopo l'attentato. Mai si era registrata una maggiore ondata di
simpatia verso gli USA in rotte le altre parti del mondo.
Vengo alla
seconda conseguenza. Alle Nazioni Unite che, per volere dell' America, hanno
sede proprio a New York, l'impatto non fu diverso.
Per anni, anzi per decenni, si
era discusso invano sul significato del termine "terrorismo"" e
sulle risposte da dare al fenomeno. Soprattutto permaneva irrisolto, l'antico
dilemma: una lotta di liberazione legittima il terrorismo, o piuttosto il
terrorismo delegittima una lotta di liberazione? Quali misure gli Stati sono
tenuti ad adottare per combattere il terrorismo e per
contrastare i gruppi ed i Paesi accusati di fomentare o sostenere atti
terroristici?
Sino
a tutti gli anni ottanta all'ONU era prevalsa la tesi che l'art. 51 dello
Statuto, che prevede il legittimo diritto all’autodifesa nel caso di
attacchi
esterni, non potesse essere invocato per atti di terrorismo. Si era addirittura
vista, ad esempio, l'Assemblea Generale dell'ONU condannare la ritorsione
americana dei bombardamenti aerei effettuati dagli USA contro la Libia, dopo
l'attentato ad una discoteca di Berlino, nel 1986.
La
situazione cominciò a mutare poco dopo il tramonto del mondo bipolare nel 1992:
quell' anno, per la prima volta il Consiglio di Sicurezza impose sanzioni contro
la Libia, con la risoluzione 748, perché non consegnava alcuni sospetti
terroristi, coinvolti nell'attentato contro l'aereo Lockheed precipitato in
Scozia.
Dopo
quella risoluzione sul terrorismo, altre ne seguirono, sempre da parte del
Consiglio di Sicurezza. Due, nel 1996, riguardarono il Sudan, contro cui si
comminavano sanzioni perché accusato di aver dato asilo a chi aveva allentato
alla vita del Presidente egiziano, Mubarak, durante una visita di questi in
Etiopia. Nel 1999, poi, era stata la volta del regime dei Talebani, in
Afghanistan, rei di continuare ad accogliere terroristi nel loro territorio ed
anzi di ospitare campi per l' addestramento dei medesimi.
Già nel
gennaio del 1998 e nel gennaio del 2000, inoltre, erano state firmate a New York
due convenzioni: la prima per la soppressione degli attentati con esplosivo e la
seconda per la soppressione del finanziamento del terrorismo.
Cosa le aveva
determinate? Certo, come già detto, da un lato il mutato clima internazionale
con la fine del bipolarismo. Ma vi era stato anche un altro motivo, più
specifico: nel 1993, quando si era scoperto "in extremis" il primo
attentato contro le Torri Gemelle, era altresì emerso che analogo attentato era
in avanzata fase di preparazione, da parte dello stesso gruppo e con le medesime
modalità, contro il Palazzo di Vetro che a New York ospita il Quartiere
Generale delle Nazioni Unite. Davanti all'imminente pericolo terrorista, la
comunità internazionale cominciava a svegliarsi. Ma si muoveva ancora
timidamente, come dimostrato dal fatto che le stesse due convenzioni
anti-terrorismo venivano inizialmente ratificate solo da una manciata di Paesi.
Il drammatico
colpo di barra si produsse invece il 12 settembre 2001, il
giorno dopo l'abbattimento delle torri gemelle.
Quel giorno
la stessa Assemblea Generale - 189 Paesi membri delle Nazioni Unite cioè e non
soltanto i 15 del Consiglio di Sicurezza - votò una
risoluzione in cui condannava "…inequivocabilmente, e nei termini più
forti, gli orrendi attacchi terroristici…" del giorno prima a New
York, Washington e in Pennsylvania.
Per la prima
volta l'Assemblea Generale, passando sopra alle polemiche di tanti decenni, e
con voto assolutamente unanime - compresi
quindi quelli di Stati sospetti di simpatie per i terroristi - riconosceva
ad ogni Stato membro "il diritto inerente alla difesa individuale, o
collettiva, in base allo Statuto contro il terrorismo". In sostanza,
cioè, si reputava possibile il ricorso all'art. 51 dello Statuto anche per
combattere il fenomeno del terrorismo internazionale, considerando quest'ultimo
alla stregua di una minaccia alla pace ed alla sicurezza. Inoltre, l'Assemblea
Generale, dopo aver espresso la propria solidarietà alle vittime, alle
famiglie, al popolo ed al Governo americano, incitava tutti gli Stati membri a
collaborare urgentemente per assicurare alla giustizia coloro che avevano
perpetrato, organizzato o sponsorizzato gli attentati e coloro che li avevano
aiutati o assistiti nella barbara impresa.
Dal canto suo il Consiglio di
Sicurezza, l'organo delegato dallo Statuto al mantenimento della pace e della
sicurezza nel mondo, non perdeva tempo. Il 28
settembre il Consiglio, sempre all'unanimità, adottava la risoluzione 1373
con
cui dichiarava l'app1icazione nella fattispecie del Capitolo
VII dello Statuto (che è quello che prevede il ricorso anche all'uso della
forza per far applicare le risoluzioni del C.d.S.) e chiedeva agli Stati membri:
a)
di
prevenire e bloccare il finanziamento di qualsiasi attività terroristica;
b)
di
rendere reato penale qualsiasi attività finanziaria connessa o riconducibi1e al
terrorismo;
c)
di
congelare immediatamente tutti i fondi. beni o risorse di persone. enti o
istituti che commettono, o cercano di commettere o facilitano la commissione di
atti terroristici;
d)
di
sopprimere e punire qualsiasi attività volta al reclutamento di nuovi membri di
gruppi terroristici o ad armarli;
e)
di
segnalare rapidamente complotti terroristici di cui gli Stati membri fossero
venuti a conoscenza mediante scambi di informazioni, di darsi reciproca
assistenza giudizi aria e di stabilire efficaci controlli alle frontiere per
bloccare i movimenti dei terroristi;
f)
di istituire un "Comitato
anti-terrorismo", composto da tutti e 15 i membri del C.d.S., col compito
di prendere tutte le misure possibili per assicurare la piena applicazione della
risoluzione.
Quest'ultima misura venne subito
messa in pratica. Nel giro di due mesi, ben 109 Stati - un vero record per i
tempi consueti del l 'ONU - si impegnarono per iscritto col Comitato
anti-terrorismo del C.d.S - ad applicare la risoluzione 1373, e designarono i
rispettivi funzionari responsabili al riguardo. Certo, le difficoltà non
mancarono e non mancano. Ad esempio, vari Paesi in via di sviluppo fecero
presente che con le scarse risorse e strutture operative a loro disposizione,
difficilmente avrebbero potuto
controllare i flussi finanziari illeciti. Alcuni
Paesi occidentali hanno al riguardo promesso ai Paesi in Via di
Sviluppo assistenza e
collaborazione.
Un' altra imprevista conseguenza
degli attentati di settembre si ebbe nel Congresso Americano. Il Congresso era
stato sino ad allora assai tiepido e sospettoso verso le Nazioni Unite, nel
timore che un'adesione incondizionata ad esse ed al loro operato avrebbe potuto
comportare lesioni di sorta alla sovranità nazionale americana: da qui la
grande diffidenza dei legislatori americani rispetto a problemi fondamentali
come i contributi al bilancio o la partecipazione alle operazioni di pace
dell'ONU, nonché la mancata ratifica di numerosi trattati e convenzioni stilati
in sede ONU. Stante la necessità di avere ora la piena ed incondizionata
solidarietà del mondo, di colpo anche il Congresso americano mutò
atteggiamento verso le Nazioni Unite: la questione dei contributi fu rapidamente
appianata. Per molte convenzioni si autorizzò il Presidente ad effettuare la
ratifica.
In breve, il
massiccio attacco terroristico aveva, nello spazio di un mattino, ribaltato non
solo all'ONU, ma anche a Washington, posizioni ed atteggiamenti consolidati dal
tempo, facendo emergere ed identificando nel terrorismo internazionale la nuova,
grave minaccia per la comunità internazionale: un fenomeno di proporzioni
allarmanti, da contrastare e combattere con assoluta priorità e con tutti i
mezzi a disposizione, non esclusi quelli militari.
E l'Italia?
Per il nostro Paese la fedeltà all'ONU ha costituito una costante, uno dei
quattro grandi pilastri su cui si regge la nostra politica estera sin dai tempi
del dopoguerra, gli altri tre essendo l'Europa, la NATO ed il Mediterraneo.
Anche
l'Italia, quindi, si è fortemente impegnata a sostenere l'ONU nella lotta al
terrorismo, varando subito apposite leggi tra cui l'art. 270 bis del Codice
Penale che sanziona ora la "associazione con finalità di terrorismo
internazionale"; rafforzando gli apparati di sicurezza e di giustizia
nonché i controlli finanziari; creando strutture "ad hoc" volte a
meglio prevenire e combattere il terrorismo internazionale. Delle 12 principali
convenzioni ONU contro il terrorismo l'Italia ne ha già ratificate 11. II
Parlamento ha già in corso di esame la dodicesima, quella del 9 gennaio 1998,
per la repressione degli attentati terroristici con esplosivo. L'Italia è, e
resta, fermamente convinta inoltre che il fenomeno vada combattuto non solo
nelle sue manifestazioni, ma anche e soprattutto a monte, nelle sue cause
originarie.
Vengo alla
terza conseguenza dell'11 settembre. La convinta, fermissima determinazione
ingeneratasi nel Governo e nel popolo americano, che di stragi come quella
dell'11 settembre non avrebbero dovuto verificarsene mai più. Da qui la
decisione di attaccare, con l'aiuto di alcuni alleati, con l'avallo unanime
dell'ONU e con l'appoggio pertanto dell'intera comunità internazionale, il
regime talebano in Afghanistan. Era infatti tale regime, già ammonito
nell'ottobre 1999 dal Consiglio di Sicurezza per ospitare basi di addestramento
dei terroristi, colpevole di aver dato asilo e sostenuto Bin Laden e la sua
organizzazione, Al Qaeda, responsabile degli attentati dell' Il settembre. Si sa
cosa accadde.
Anche
allora, quanti dubbi alla vigilia!
Comunque
l'attacco americano-britannico venne sferrato in forze e, in poche settimane,
condusse al crollo totale del regime talebano. Ma Bin Laden riuscì a sfuggire
alla cattura.
A quella
operazione in Afghanistan - definibile di
"peace enforcement" e cioè di imposizione della pace, diversa
quindi dal "peace keeping", che della pace prevede solo il
mantenimento prima che scoppi un conflitto - ne è seguita un'altra di "peace
building" o "nation building", in cui
anche i nostri alpini sono - come noto - direttamente
coinvolti ed impegnati.
Ad essi, ai
nostri alpini in Afghanistan, vorrei rivolgere un caloroso saluto e
incoraggiamento per gli straordinari servigi che stanno rendendo alla causa
della pace nel mondo ed a primari interessi nazionali del nostro Paese.
Ma la
determinazione americana non finì con la presa di Kabul e delle altre
roccaforti talebane. Suscitava non poche preoccupazioni a Washington la
situazione in Iraq, il cui Governo era sospettato di continuare a violare le
condizioni amnistiziali del 1991 e le successive risoluzioni ONU che gli
imponevano un disarmo totale per quanto riguardava le anni di distruzione di
massa. Armi che tra l'altro potrebbero facilmente cadere in mano a terroristi,
con le conseguenze che tutti possono immaginare. Di fatto gli americani sono
andati persuadendosi sempre di più della necessità di una guerra
preventiva, se l'Iraq non avesse immediatamente proceduto, senza
ulteriori dilazioni o procrastinazioni, a privarsi di tutte le armi di
distruzione di massa ancora in suo possesso - nucleari, biologiche, chimiche e
dei vettori idonei a trasportarli oltre una certa gittata - nonché della
capacità di fabbricane.
A quel punto,
però l'ONU, o meglio la comunità internazionale, si è spaccata in due
schieramenti contrapposti.
Da un lato
gli Stati Uniti ed altri (specie Gran Bretagna, Spagna, Australia, ecc)
affermavano che l'attuale Governo dell'Iraq, malgrado i suoi ripetuti dinieghi,
continuava a mantenere cospicui arsenali di armi di distruzione di massa, e che occorreva
quindi procedere dall'esterno al disarmo dell’Iraq, mediante una guerra
preventiva.
Un'altra parte della comunità
internazionale invece affermava che bisogna lasciare più tempo agli ispettori
dell'ONU per accertare l'effettiva realtà delle cose, e ricorrere alla guerra
solo come ultima., "extrema ratio". Questa divisione di
opinioni passava all'interno della NATO e della stessa Unione Europea ed è
divenuta motivo di giuste preoccupazioni anche per il futuro di entrambe queste
Organizzazioni le cui sorti e i cui destini tanto stanno giustamente a cuore a
noi europei.
Tutti abbiamo seguito con trepidazione
gli avvenimenti che sono seguiti.
La lunga
requisitoria di Colin Powell al Palazzo di Vetro, e i successivi discorsi suoi e
del Presidente Bush, erano apparsi come una messa in mora non solo dell'Iraq, ma
dello stesso Consiglio di Sicurezza.
In sostanza
Powell e Bush dicevano: "il regime irakeno ha già ampiamente violato
le risoluzioni che concernono le sue armi di distruzione di massa. Ecco le prove".
Gli americani, e la "coalition of the willing" che li sostiene,
ritenevano quindi che ormai potessero, anzi dovessero, scattare ]e "gravi
conseguenze" previste dalle risoluzioni stesse in caso di inadempienza.
"Gravi conseguenze" significa, in questo caso, la guerra. E,
purtroppo, proprio in queste ultime ore, la guerra è scattata. La speranza, a
questo punto, è che il conflitto sia il più breve, e il meno cruento
possibile, soprattutto per quanto concerne le popolazioni civili innocenti.
Si è molto
discusso, e si continua discutere, se sotto il profilo del diritto
internazionale il ricorso all'uso della forza per disarmare Saddam Hussejn sia o
meno legittimo. Vi sono due scuole di pensiero: secondo la prima, tre precedenti
risoluzioni, adottate dallo stesso Consiglio di Sicurezza, avevano autorizzato
l'uso della forza. L'altra scuola di pensiero sostiene invece che, in base agli
art. 24 e 25 dello Statuto, solo al Consiglio di Sicurezza compete la
responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale.
Del resto se
le tre risoluzioni precedenti fossero state ritenute sufficienti, perché si
sarebbe insistito per una nuova autorizzazione formale da parte del Consiglio, e
quando è apparso evidente che l'autorizzazione non sarebbe venuta, si è
ritirato il progetto di risoluzione?
Si
dice anche, da tempo, che la struttura del Consiglio di Sicurezza continua ad
essere l'espressione dell'ordine dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale, ma
che oggi gli equilibri di potere nel mondo sono cambiati, che occorre quindi una
riforma radicale del Consiglio che lo renda più rappresentativo e più in linea
con i tempi.
Tutto
sacro santamente vero.
Provate
però a fare questa riforma, che dia più peso a Paesi come India, Brasile,
Egitto, Nigeria, Pakistan, Indonesia. È chiaro, infatti. che per far posto a
questi Paesi si dovrà restringere la presenza in Consiglio dei Paesi Europei,
trasformando ad esempio l'attuale seggio detenuto da Francia e Gran Bretagna in
seggio comune dell'Europa unita. Sono profondamente convinto che finché ciò
non avverrà, la riforma del Consiglio di Sicurezza dell'ONU resterà una
chimera.
Bisogna
allora rassegnarsi? Non credo proprio: tante volte ho suggerito che si cominci,
anche al Consiglio di Sicurezza, con la politica dei piccoli passi che frutti
così fecondi e copiosi ha dato per la graduale costruzione dell'Europa. Si
cominci, ad esempio, col creare un "embrione di seggio europeo"
accreditando, ad esempio, nelle delegazioni elette di Paesi dell'Unione in
C.d.S. - in questo momento Germania e Spagna
- funzionari rappresentanti di Mr. PESC o della Commissione o dei Paesi
che esercitano la Presidenza di turno dell'Unione: l'Europa comincerebbe così
finalmente con l'avere occhi ed orecchi propri in seno al Consiglio di
Sicurezza.
Per tornare alla guerra in corso in Iraq, l'esito appare scontato, data
la disparità delle forze in campo.
La
speranza è quindi che si tratti di un conflitto il più rapido e il
meno cruento possibile, specie per le innocenti popolazioni civili interessate.
E poi?
Poi
sempre all'ONU bisognerà tornare: per far fronte alle esigenze umanitarie
(basti pensare alle masse di profughi, per raggiungere e gestire la pace e la
ricostruzione. Verrà così in qualche modo ristabilita la legittimità
internazionale. E nuovamente riconosciuto il ruolo insostituibile delle
Nazioni Unite.
E accaduto per il Kossovo. Penso che accadrà anche dopo l'invasione
dell'Iraq.
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