CAPITOLO IV

I DUCHI DI GIOVAN PAOLO E LA POLITICA DELLA FRANCIA

I Giovan Paolo


Credo mio dovere soffermarmi su questa linea ultrogenita della nostra famiglia, linea le cui vicende meritano di essere tratte dal silenzio e dall’oblio per il lustro che i suoi personaggi apportarono al nome della casata, sia in Sicilia come in terra straniera.
Appartenne questo ramo alla discendenza di Miuccio MaRullo grande banchiere messinese dal 1448 al 1470, Tesoriere del Re di Napoli, e Senatore di Messina nel 1470-72.
Egli fu terzogenito di Tommaso I e di Mannuccia Compagno. Suo nipote ex filio, che portava lo stesso nome, fu Barone di Saponara e Calvaruso per successione della madre Maria Pollicino e Castagna di Gaspare.
Il pronipote di Miuccio II, Placido, del quale si fa ora cenno, fu il primo Duca di Giovan Paolo nel 1648.
Egli aveva sposato Donna Ippolita Furnari dei Duchi di Furnari che gli aveva portato in dote il Diritto della Decima sulle mandre di agnelli, pecore e capre di Taormina con titolo baronale su tale balzello capitalizzato a strasatto dal governo spagnolo, e venduto a privati.
Trovandosi il detto Don Placido a ricoprire la carica di Senatore Nobile nell’anno 1646, quando scoppiarono in Messina gravi moti insurrezionali contro la Spagna, ed essendosi molto adoperato a sedare i tumulti ed a far tornare la calma, fu, con Diploma segnato in Madrid in data 1648, insignito del titolo di Duca, trasmissibile, titolo incardinato sul feudo rustico di Giovan Paolo che egli possedeva per averlo ereditato dal padre Don Vincenzo Marullo e Sollima, e sul quale era incorporata la dote di Donna Ortensia Balsamo sua madre. Giovan Paolo era un vasto predio allodiale forse in origine membro della Baronia di Saponara, in gran parte pianeggiante, che dalla riva del mare saliva verso le colline adiacenti alla Terra del Gibiso confinando con la Contea di Bavuso dei Cottone e la Ducea di Saponara dei Di Giovanni. Dal matrimonio di Placido con Ippolita Furnari erano nati tre figli: Vincenzo, Tommaso e Lucrezia.
Vincenzo, primogenito, nacque in Messina il 18-12-1633, e fu battezzato nella Parrocchia di S. Giuliano facendogli da padrino Don Riccardo Avarna, come risulta dalla fede parrocchiale che detengo nel mio archivio.
Alla morte di suo padre, il detto Vincenzo fu 2 Duca diGiovan Paolo, e Barone della Decima di Agnelli lo fu alla morte della madre. Egli non prese investitura, ne prima ne dopo il suo matrimonio con la nobile Donna Veronica Barrile.
Tommaso, suo fratello secondogenito, morì senza lasciar discendenti, e Lucrezia andò sposa al nobile messinese Don Pa-
squale Cuzzaniti, ricco possidente di terre in quel di Santa Lucia del Mela.
Il Duca Vincenzo prese parte principale alla rivoluzione di Messina del 1674-78. Nel 1672, per i disordini del 30 marzo che
causarono la destituzione dei Senatori in carica, egli fu chiamato dai rivoluzionari a far parte del nuovo alto consesso municipale. Nel 1674 venne confermato nella carica di Senatore, e nel giugno dello stesso anno, essendo a capo del Comitato di Salute Pubblica, impedì con la forza che alcuni vascelli inglesi, che provenivano da porti infetti di peste, si avvicinassero al lido del Faro e sbarcassero uomini e mezzi per fare acqua. La resa del Palazzo Reale (3 agosto 1674) in mano della trionfante rivoluzione ide il Duca di Giovan Paolo in prima linea, e i Capitoli di Accorcdio, stipulati tra il Senato ed il deposto Stratigò Soria, portano la sua firma.

L’arrivo in Messina della flotta di Valbelle

Con grande gioia videro i messinesi il 27 settembre 1674 giungere la flotta francese, che sotto il comando del Commendatore di Valbelle, portava alla città insorta il promesso aiuto per la definitiva cacciata delle armi spagnole. Sbarcato dal vascello su cui era issata la sua insegna di Comandante, il Valbelle, seguito dai suoi ufficiali, dalla riviera di San Francesco di Paola, ove era ancorato il convoglio francese, si recò in forma solenne al palazzo senataria, acclamato lungo il percorso da una vera moltitudine di cittadini. Al suo giungere trovò a metà della scalone i Senatori che lo attendevano; e che lo accolsero coi segni del più grande onore accompagnandolo nel salone
delle Udienze fastosamente arredato ed in cui spiccavano trofei di bandiere francesi e messinesi. Il Valbelle pronunziò una forbita orazione, confermando che il Re Luigi XIV avrebbe mantenuto per intero l’impegno assunto di assistere validamente Messina nella strenua lotta ingaggiata contro le armi spagnole.
Alla fine della applauditissimo discorso del Valbelle, il Duca il Giovan Paolo, come Senatore Ebdomadarlo, rispose con la seguente allocuzione tramandataci nel sua testo originale dallo storico messinese Cay. GioBattista Romano Colonna a pag. 160, 3° volume, del suo libro dal titolo:

“LA CONGIURA DEl MINISTRI DEL RE DI SPAGNA
CONTRO MESSINA “, stampato in Messina nel 1676.

<<Se al nostro pietoso ricorso fatto alla Cristianissima Mae<<stà del Gran Luigi XIV, da sua parte, illustrissimo Signore, <<ci portate si cortese ed onorevole risposta, chi non la crederà

<<un annuncio felice di gioia, un fortunato foriero di contentezze,
<<mentre ci assicurate con una moltitudine di grazie una perpe-
<<tua protezione di un Principe si potente, che commiserando
<<l’afflitto stato di questo pubblico, non sdegnò le nostre sup-
<<pliche, ma come amatore della Giustizia e difensore degli op-
<<pressi, le gradi?. A si cortesi esibizioni corrono riverenti tutti
<<gli affetti del nostro cuore, e con un comune e festivo ossequio
<<l’inchiniamo Padrone. Godiamo aver ricevuto le passate di-
<<sgrazie perché hanno preparato la felicita della nostra patria
<<col dominio di si affabile, si gentile, si formidabile monarca.
<<La Francia che sempre è stata temuta dalle provincie più
<<guerriere. e poco men che adorata dalla ottomana superbia,
<<sarà, questa volta, al sicuro per abbassare la tirannide che ci
<<opprime, ci proteggera ed apportera fulmini di vera valore al-
<<l’ardire cittadino.
<<Ora non più temiamo il poderoso nemico, or che stende
<<le braccia per raccoglierci la magnificenza reale del Gran Lui-
<<gi, il di cui cuore, benché corteggiato da innumerevoli vittorie,
<<il maggior suo trionfo sono la clemenza e la pietà, perlocché
<<la Maestà Divina nello obbligarlo a nuovi e più gloriosi reami,
<<vuol costituire nel mondo il più Sovrano Principe adorno di
<<diademi e di singolarissimi allori. Le grazie che con prodiga
<<mano ci diffondete in nome del Re, fertilizzano di lodi le no-
<<stre lingue per encomiar di continuo le di lui ammirabili bon-
<<tà. Gia tutti noi, sgrombrato ogni timore, in braccia della si-
<<curezza stimiamo, per epilogo delle nostre fortune, per il mas-
<<simo delle nostre prerogative, confessarci suoi sudditi, conse-
<<gnandoli per contrassegno del nostro affetto l’omaggio del
<<cuore che con ogni allegrezza inchina ed inchinerà con fede
<<immortale lo stendardo vittorioso di Francia. Non ci sarà an-
<<golo nel mondo ignoto anche ai raggi del sole che non am-
<<mirerà il nostro ossequio e l’obbedienza che questi fedelissimi
<<popoli saranno per prestare a si glorioso Monarca. L’esperien-
<<za, maestra delle cose umane, autenticherà questa verità, e
<<noi, che rappresentiamo l’universale di questa patria, 1’assi-
<<curiamo di ciò che io ho detto. Non mancandoci il patrocinio
<<e l’invittissimo valore di Luigi, non si stancherà giammai que-
<<sta città di impugnare le armi per accrescere le sue glorie, ed
<<essendo essa città la chiave del Levante e del Ponente, potrà
<<aprirgli le porte per entrare dappertutto trionfante. Tutti noi
<<alla vostra presenza, Illustrissimo Signore, ne ratifichiamo il
<<comun desiderio, e nelle vostre mani deponiamo la nostra vo-
<<lontà per tributarne il soglio del Re nostro Signore >>.
<<Terminata che ebbe questa orazione II Duca di Giovan Pao-
<<lo; rivolgendosi a tutte le autorità messinesi presenti alla ceri-
<<monia, cosi parlò:
<<Valorosi concittadini, è giunta l’ora di palesare il vostro
<<interno a favore della riparazione e dell’onore della patria.
<<Ecco arrivato il sospiratissimo giorno di sciogliere la catena
<<più insoffribile della servitù spagnola che con tanti anelli ha
<<cercato di incatenar vilmente la nostra carissima patria. Lui-
<<gi XIV è vostro legittimo Re e Signore. La Corona della Sicilia
<<per più rilevanti ragioni è a lui dovuta: la empietà della for-
<<tuna gliela involò dal capo, ora il Cielo, vendicator giusto delle
<<nostre offese, gliela restituisce acciò la nostra Patria, esem-
<<plare sempre di meraviglie al mondo, non finisca di perdersi
<<tra le reti ingannevoli della congiura spagnola. Noi col resti-
<<tuire alla Francia questo diadema, ritorneremo al godimento
<<della perduta prosperità e riconosceremo che, stanca di ancor
<<perseguitarci, la fortuna si fermerò per colmarci di gioia, per
<<arricchirci di felici contenti. Viva il Re Luigi il Giusto.
<<A voi, illustrissimo e generoso Signore che ci avete con
<<tanta lodevole bravura soccorso mostrando i bellissimi spiriti
<<del vostro ardire, confessiamo già registrata nel cuore eterna,
<<amorosa, e singolare obbligazione >>.


Queste navi erano al comando del Marchese di Vallevoir.
Alla vista del convoglio francese, gli spagnoli, comprendendo che subito dopo sarebbe apparsa la invincibile flotta di vascelli, tanto rinomata in tutto il Mediterraneo, Si allentarono frettolosamente dal Faro dirigendo le prore su Milazzo ove si sentivano al sicuro sotto la protezione di quel munito castello.
Il giorno 5 il Vallevoir, accompagnato dal Valbelle, Si reco con un brillante seguito al Palazzo Senatorio, e consegnò una lettera autografa del re Sole al Capo della Civica Rappresentanza, accompagnando la presentazione della reale missiva con una brillante allocuzione alla quale subito rispose, con altro non meno forbito discorso, il Senatore Duca di Giovan Paolo. Se il lettore sarà curioso di leggere, sia la lettera del re Luigi, sia il testo delle orazioni pronunziate in quella occasione potrò prenderne visione nella pubblicazione, oggi rarissima, del Romano Colonna, sopra citata, secondo volume a pagina- 148 e seguenti.
L’aiuto giunto dalla Francia rincuorò i depressi animi dei messinesi, e nello stesso tempo fece ritornare la fiducia nella vittoria, decidendo gli abitanti delle Forie a prendere le armi a favore della città.

L’arrivo del Duca di Vivonne

Dopo di aver vittoriosamente sostenuto una battaglia con 1’arrnata spagnola nelle acque di Stromboli, il convoglio del Duca di Vivonne giunse in Messina il giorno 11 febbraio 1675. Era composto di nove vascelli, una fregata leggera, tre brulotti di fuoco, e otto grosse navi da carico: in totale 21 vele.
Grandi furono i successi di questa flotta dal suo primo giungere nei nostri mari le forze navali e terrestri spagnole, benché notevolmente rafforzata dalla formidabile armata olandese dell’Ammiraglio Ruyter, più volte sconfitte, si ritirarono a Napoli, a Milazzo ed a Reggia in attesa di eventi, pronte alla riscossa al momento opportuno. Trascorsero gli anni 1675, 76, 77 tra un continuo succedersi di scaramucce, di piccole e gran-di azioni belliche, rimanenda le case allo stesso punto. Ma alla fine del 1677 i francesi diedero evidenti segni di stanchezza. Il Duca di Vivonne, nel dicembre di quell’anno, chiese al re di essere esonerato dalla carica di comandante del corpo di aperazione.
In tale periodo di ansie e di incertezze il Duca di Giovan Paolo rimase sempre fermo al suo posto in prima linea, tanto come combattente, che come consigliere illuminato e prudente del Comando Francese.
Anche il Cavaliere Don Tommaso, suo fratello, ebbe gran parte in questa lotta ad oltranza, e la sorella Donna Lucrezia, spasata al Nobile Pasquale Cuzzaniti, influì, pur in modeste proporzioni, ad aiutare la causa cui si erano votati i suoi due fratelli. Il Cavaliere Tommaso fu dall’inizio della rivoluzione incaricato dal Senato di Messina di disimpegnare missioni delicate ed importantissime. Il 26 luglio 1674 fu inviato a Livorno per acquistarvi polveri ed artiglierie. Da Livorno si recò in Francia per sollecitare dal re l’invio degli aiuti promessi. Ritornato a Messina il 9 gennaia 1675, presentò al Senato una minuziosa relazione del suo operato, nella quale relazione fece noto che a causa delle pressioni esercitate dalla Spagna, per via diplamatica, non solo su Genova, ma anche sulla Toscana, e su tutti gli altri Stati italiani amici della dinastia asburgica, o semplicemente neutrali, gli era stato impedito di acquistare merce per Messina, e che quindi egli era stato costretto passare in Francia, e precisamente a Marsiglia, ove in compagnia di Gristofara Maiorana, aveva fatto molti utili acquisti che con numerose tartane ed altre imbarcazioni aveva inviati a Messina. Nello archivio di Simancas esiste,tra l’altro immenso materiale documentario, il carteggio tra il Don Tommaso ed il Senato di Messina,dal quale carteggio si rileva l’opera in stancabile di questo patriota.
Di lui non si ebbe altra notizia che quella di essere partito coi francesi da Messina. La sua fine rimane oscura e misteriosa. Anche Donna Lucrezia Marullo di Giovan Paolo, in Cuzzaniti, merita un breve cenno in queste pagine per la sua opera patriottica. Ella aveva sposato, nel 1650, Don Pasquale Cuzzaniti, e dopo lo scoppio della rivoluzione si era rifugiata col marito e i figli nella vicina città di Santa Lucia del Mela, ove i Cuzzaniti possedevano estesi beni.
Per il grande prestigio e la vivissima simpatia che la coppia Cuzzaniti-Marullo godeva in quella ridente cittadina montana,ivi si era venuta a creare una numerosa corrente di simpatizzanti per la causa messinese, con la conseguenza che, malgrado la assidua vigilanza del sergente maggiore Don Diego Beltran, che per la Spagna reggeva quella fortezza, partivano giornalmente dalle campagne luciesi notevoli quantità di viveri dirette per la via dei monti a Messina.
Don Diego Beltran, avutone sentore, tentò invano di impedire tali soccorsi, ne riferì al Viceré in Milazzo. Ma, benché si cercasse di far cessare i rifornimenti, tutti gli sforzi in tal senso esperiti dalle autorità spagnole riuscirono vani.

La Francia abbandona Messina

Ho accennato in precedenza che alla fine del 1677 furono notati in Messina segni evidenti di stanchezza da parte dei francesi nel proseguimento delle azioni belliche. Purtroppo, questi segni non erano né casuali nè sporadici: si trattava, invece, delle prime manifestazioni di un radicale cambiamento della politica di Versailles verso Messina, mutamento che preludeva all’abbandono della impresa tanto entusiasticamente iniziata. Il re Sole, in effetti, aveva deciso da qualche mese di ritirare le truppe e le navi che erano in Sicilia.
Le ragioni che avevano determinato tale impensato cambiamento erano abbastanza gravi: l’Inghilterra aveva stretto una alleanza militare con la Spagna e coi Paesi Bassi contro la Francia. Le forze navali riunite di queste tre grandi potenze avrebbero avuto, senza dubbio, una netta superiorità su quelle francesi, con l’immediato risultato di poter intercettare qualsiasi comunicazione marittima tra Tolone e Messina. La situazione sarebbe, quindi, divenuta molto grave per la flotta e per le truppe francesi dislocate in SiciliaD’altra parte, si considerava a Versailles che essendo Messina città, in quel tempo, popolata di oltre centomila abitanti, quasi tutti in possesso di armi, non si sarebbe tanto facilmente rassegnata a vedersi abbandonata dai francesi per cadere subito nelle mani della reazione spagnola. Il popolo peloritano era di sentimenti molto spirituali ma diffidava nello stesso tempo degli stranieri, e di tale diffidenza era evidente segno il fatto che due terzi della borghesia e del patriziato si riunivano due o tre volte al giorno nella piazza della Banca per ragionare su quanto di nuovo accadeva in città, ed ognuno degli intervenuti comunicava le notizie che aveva potuto raccogliere sulle mosse dei francesi. sui loro discorsi ed atteggiamenti.
Questo clima di sospetto era noto al Comando francese, tuttavia, malgrado tale situazione, il Governo di Parigi decise di non perder tempo ad iniziare la ritirata perché gli giungevano notizie sicure che le flotte alleate nemiche si accingevano a partire dalle loro rispettive basi per raggiungere Minorca; luogo di adunata, ed andare quindi verso lo Stretto Peloritano. Il re comprese che non vi era tempo da perdere, ma che occorreva affidare l’incarico della ritirata ad un uomo risoluto e capace, e scelse subito il Maresciallo Duca de la Feuillade che nominò Comandante in capo delle Armate in Sicilia.
Il Duca de la Feuillade parti da Parigi per Tolone il 6 gennaio 1678, e solo il 26 dello stesso mese poté imbarcarsi sul vascello di Monsieur de La Barre, giungendo in Messina il 6 febbraio. Appena sbarcato, dopo aver fatto e ricevuto le consuete visite protocollari, il Maresciallo, in conformità degli ordini ricevuti personalmente dal re, provvide per l’imbarco delle truppe e dei mezzi bellici, adducendo il pretesto di organizzare una spedizione su Palermo per tentare la conquista di tutta la Sicilia.
Anche le galere ed i vascelli ebbero ordine di prepararsi alla partenza. Con questi discorsi e programmi si riusciva, in un certo qual modo, a tranquillizzare i messinesi, che assistevano con qualche inquietudine alle operazioni di imbarco. Chi avrebbe mai potuto sospettare che tutto questo armeggiamento non rappresentava altro che una indegna commedia, e che tra poco Messina sarebbe stata abbandonata in balia delle armi spagnole che, da Reggio e da Milazzo, vigilavano attendendo il momento buono per la riscossa? E per meglio riuscire a dissipare i dubbi ed i timori dei messinesi, il furbo Maresciallo quasi ogni sera teneva aperti i saloni del Palazzo Reale, e vi invitava la nobiltà e l’alta borghesia della città, intrattenendole con feste danzanti, con concerti, con cene, con giochi di società, secondo la usanza di quei tempi. E, mentre col popolo e con le autorità il Comando Francese usava La consueta affabilità, e confermava che eterna sarebbe stata la protezione del re Sole per la città del Faro, sottomano faceva partire alla spicciolata navi cariche di uomini, di armi e di munizioni, e, per meglio far riuscire l’ignobile inganno, dava ordine ai comandanti che, uscendo dal porto falcato, navigassero verso sud, come se realmente dovessero recarsi ad Augusta per iniziare quella tanto decantata impresa di guerra per la conquista di tutta la Sicilia che il de La Feuillade aveva falsamente annunziata al suo arrivo da Parigi.
Il 13 marzo, quando tutto il materiale era stato imbarcato, e in città e dintorni non rimaneva né un soldato né un cittadino francese venuto al seguito della spedizione, il Comandante fece sapere ai Senatori che l’indomani li avrebbe attesi sulla galera del Comandante Janson all’ora consueta del pranzo per comunicazioni. All’appuntamento fissato si presentò il Senato al completo, ed il Maresciallo annunzio che, per ordine ricevuto da Sua Maestà il giorno precedente, egli, con sommo rincrescimento, doveva far ritorno subito in Francia con tutta l’armata.
La costernazione e l’emozione dei Senatori fu indescrivibile: lo abbandono delle forze francesi segnava la rovina di Messina ed in particolare di quella parte dei cittadini che aveva innalzato La bandiera della rivoluzione chiamando in aiuto la Francia.
Con voce tremante gli afflitti rappresentanti della città scongiurarono il La Feuillade di non abbandonare del tutto la loro patria, ed ai dinieghi opposti dal Comandante, lo pregarono di attendere un giorno ancora prima di partire. Dopo di che si congedarono.
Per tutto il pomeriggio e la sera il Duca-Maresciallo passeggiò, come di consueto, sul porto. A notte inoltrata mandò alcuni uomini a ritirare i ritratti del re Sole che si trovavano, uno al Palazzo Reale, e l’altro alla Sede Senatoria.
In città i capi del movimento rivoluzionario erano, più di tutti gli altri cittadini, alla disperazione perché sentivano il peso della responsabilità di quella tremenda situazione, e si rendevano conto che essi sarebbero stati il primo bersaglio della reazione spagnola. Don Tommaso Cafaro andava su e giù per il porto ostentando un aria di sfida contro la avversa fortuna, il Commendatore di Malta de Gregorio, chiamato fin allora il Padre della Patria, vide, appena sparsasi in città la notizia della
partenza dei francesi, la sua casa invasa da una moltitudine di cittadini di ogni ceto che lo scongiuravano di mettere in atto tutta La sua autorità per impedire quella estrema rovina. Le
preghiere, le suppliche continuamente rinnovate per tutta quella tragica notte non diedero alcun risultato. Solo il la Feuillade acconsenti di accogliere sulle sue navi tutti coloro che chiedevano di partire con l’armata.
Non vi era nessuna altra alternativa di salvezza per molte famiglie, specie per quelle che si erano maggiormente compromesse nella rivolta.
E cosi, durante il giorno successivo, si imbarcarono sulle galere e sui vascelli, già pronti alla partenza, i Senatori con i loro familiari, e moltissime casate della nobiltà e dell’alta borghesia.
Fu un continua accorrere al porto per salir sulle navi tra scene strazianti di commiato. Malti partirono con pochissimo denaro in fretta raccolto per la brevità del tempo, e con qualche indumento: uomini donne, vecchi, bambini tutti piangevano disperatamente lasciando i propri cari, i loro beni e la infelice città natia che forse non avrebbero mai più riveduta. Alle prime luci dell’alba del giorno 16 la flotta salpò le ancore e si allontanò in direzione di Augusta ove doveva imbarcare uomini e mezzi bellici che si trovavano colà. Finiva cosi, in modo ignominioso per la Francia, la spedizione di Sicilia che quattro anni prima era stata con tanti promettenti miraggi iniziata.

I Giovan Paolo esuli in Francia

Malgrado le discordi affermazioni di tanti storici circa il numero dei messinesi partiti con le navi francesi, una severa disamina ha precisato che i profughi furono circa 6000. Sulle navi del Comm. di Vabbelle, che formavano la retroguardia del convoglio, si imbarcarono 60 Dame della più alta nobiltà, molti gentiluomini, quasi tutti i Cavalieri di Malta del Gran Priorato, e settanta dei cento Cavalieni dell’Ordine della Stella. Il Lancina afferma che 600 furono le casate che lasciarono la loro patria per cercare asilo in Francia.
Se questo movimento di emigrazione non fu notevole per numero, lo fu invece per la qualità dei partenti, rappresentando i tre quarti delle migliori famiglie peloritane. Sbarcarono questi infelici in Provenza tra il 3 ed il 7 aprile.
I Duchi di Giavan Paolo, ospitati dal Valbelle sul suo vascello,poterono portare con sé quel poco denaro che avevano in casa, le gioie di famiglia e alcuni indumenti che ebbero il tempo di raccogliere in poche ore nel loro palazzo posto dietro la tribuna del Duomo, e prospiciente su un piccolo spiazzo poi sparito nella ricostruzione della città .dopo il terremoto del 1783, spiazzo che su per giù corrisponde allo odierno incrocio della via Loggia dei Mercanti, già Pianellari, con la via Argentieri.
Sbarcarono, dopo un disastroso viaggia. durato oltre 15 giorni, a Marsiglia ove erano già arrivati alcuni profughi ed altri
ancora giungevano giornalmente. Il re aveva dato ordini che tutti dovessero rimanere a Marsiglia ed a Tolone in attesa di sue disposizioni.
Tuttavia al Duca e ad altri pochi capi della rivoluzione fu concesso poter proseguire per la Capitale. Luigi XIV conosceva molto bene Don Vincenzo, sia per le relazione favorevoli che gliene avevano fornite i suoi fidati informatori, sia perché lo aveva ricevuto a Versaglia nel 1675, quale capo dell’ambasceria inviata in quell’anno da Messina. E perciò lo ricevette subito con la famiglia e gli fu largo di conforto e di aiuti. Difatti, dispose che fosse onorevolmente alloggiato a Parigi, gli assegnò
una buona pensione, e provvide che i figli fossero ammessi in istituti di educazione, e che venissero tutti naturalizzati cittadini francesi. Dopo qualche tempo il Duca e la Duchessa, molto malandati in salute a causa del rigido clima parigino; si trasferirono a Marsiglia mentre i figli rimasero alla Capitale per compire i loro studi. Da Marsiglia i Duchi passarono poi ad abitare ad Arcachon ove avevano preso in affitto una villetta, e dove Don Vincenzo si spense, nel 1697, all’età di 64 anni. Egli, prima di morire, nel 1695, aveva ottenuto che tutti i suoi figli, già cittadini francesi, come si è detto, potessero possedere benefici laici ed ecclesiastici e pensioni. La Duchessa, dopo ha morte del marito, lasciò la dimora di Arcachon e si stabili in Marsiglia, in una casa posta nella Rue de Romme, ove fini i suoi giorni nel 1718.

Le figlie, appena raggiunte le rispettive età prescritte, avevano tutte preso il velo negli Ordini di San Benedetto e delle Carmelitane. Dei maschi Placido, primogenito, era stato chiamato a Corte, Antonio e Tommaso si erano fatti sacerdoti ed in seguito furono titolari di cospicue Abbazie francesi, come si dirà in seguito.
Intanto a Messina il governo spagnolo aveva confiscato tutti i beni dei Giovan Paolo come ribelli. Nella confisca erano stati inclusi il titolo di Duca e quello di Barone della decima sulle pecore e capre di Taormina. Il re volle compensare in parte questa perdita di carattere nobiliare, e subito dopo la morte di Don Vincenzo, decorò il figlio primogenito, Placido, del titolo di Barone sul cognome, e lo fece registrare nel Libro d’Oro della Nobi1tà Francese.
Dopo poco lo creò gentiluomo di Corte, e gli assegnò una buona pensione vitalizia. Morì il Barone Don Placido de Maroulle (cosi è iscritto nel Blasonario Francese di M. de La CHENAY (Paris), il 7 agosto 1742 celibe a Parigi. I suoi due fratelli ultrogeniti, Tommaso ed Antonio, che avevano voluto, come le loro sorelle, abbracciare la vita di religiosi, vissero a Parigi, e, come si è detto, furono Abati entrambi di rinomate Abazie francesi. Tommaso morì in quella Capitale appena cinquantenne; Antonio, abate di La Frénade (Diocesi di Sainte), Si distinse ancor giovinetto per il suo grande ingegno e la vasta cultura, e più che altro per la sua rara modestia. Fu egli molto caro al Duca d’Orleans che lo protesse e lo volle sempre alla sua Corte.
Morì a Parigi il 5 dicembre 1726, a soli 57 anni, tra il generale rimpianto.
Riporto quì un breve estratto del “MERCURE DE FRANCE” (fascicolo di Aprile del 1727), in cui a pagina 686, nel ricordare la morte dell’Abate Antonio, lo scrittore che ne fa menzione pubblico, tra le altre lodi del defunto, le seguenti significative parole:
<<Vous savez jusqu’on allaient ses connaissances et ses ta

<<lentes ans la peinture; sa modestie était au dessus... Il avait
<<commencé à écrire pour feu Monseigneur le Duc d’Orleans la
<<vie de quelques peintres italiens, il eut ètè à souhaiter qu’il eut
<<<poursuivi. On peut dire qu’il ètait au fait de toutes les scien-
<<ces, surtout très profond dans les belles lettres et parlant
<<égalment bien quatre ou cinq langues. Parfait chretien, fidele
<<ami, tendre parent, et surtout modeste au point que la plu-
<<part de ses meilleurs amis ignoraient à sa mort sa haute nais-
<<sance... >>.


Come sopra ho detto, la Duchessa di Giovan Paolo, rimasta vedova, si era stabilita in Marsiglia. Era molto sofferente, e la solitudine le pesava in quella terra straniera. I suoi figli venivano ogni tanto a trovarla e passavano qualche giorno con lei.
Poi ognuno tornava alle sue occupazioni ed ai suoi impegni.
Cosi trascorse, molto tristemente, gli ultimi anni della sua esistenza questa nobilissima Signora che la sventura aveva strappato alla patria, ai parenti, alle cose più care. Tra tante amarezze e tribolazioni iddio volle darle, prima che ella lasciasse questa vita terrena, un barlume di speranza e di luce con il condono generale concesso ai nibelli messinesi da Filippo V di Casa Borbone, salito al trono di Spagna. Con sentenza del Tribunale del Real Patrimonio, in conformità del Decreto suddetto, furono restituiti alla Duchessa quei beni già confiscati al marito come ribelle, beni che peraltro erano stati ingiustamente ed illegalmente incorporati dal Fisco in quanto su di essi grava-
va la ipoteca della dote in contanti per l’importo di onze 5000 che la Duchessa Donna Veronica aveva avuto in occasione delle sue nozze. La restituzione però avvenne solo per quella parte del
patrimonio confiscato che non era stato alla data del 1705 ancora venduto a terzi, e permaneva nel patrimonio regio. Il cespite principale, rappresentato dal feudo di Giovan Paolo, su cui era incardinato il titolo ducale della famiglia, era stato nel 1682 smembrato in vari lotti, venduti a diversi acquirenti. La parte più importante si trovò nel 1769 in possesso della famiglia

Di Giacomo, e questa chiese ed ottenne la elevazione del cespite in Baronia col predicato di Giovan Paolo.
Alla abolizione della feudalità il titolo ed il feudo si trovavano ancora in possesso della Casa Di Giacomo. La Baronia è oggi in potere, per successione di Casa Arau, di Don Sergio Marullo di Francesco, di Placido e di Flavia Arau.
I beni restituiti alla Duchessa di Giovan Paolo, in base al condono generale, di cui sopra ho fatto menzione, furono: Il Palazzo Giovan Paolo con botteghe, scuderie ed annessi e connessi.
Altra casa a due piani nel quartiere dell’Oliveto.
Una rendita totale di onze 56 annue per il capitale di onze 1200.
Altra rendita per il capitale di onze 700.
Altra rendita per il capitale di onze 56.
Un censo di onze 19 annue.
Un censo di bolla di onze 9 annue.
Un censo su un podere al Faro di onze 9 annue.
La rendita della tassa di Pecore e agnelli di Taormina.
Altri tre censi in derrate su cespiti rustici al Gibiso, al Faro e a Milazzo.
Il titolo di Duca di Giovan Paolo.
Il titolo di Barone sulla decima delle Pecore ed Agnelli di Taormina.
Questa restituzione di cespiti avrebbe rappresentato per la Duchessa, più che ottantenne, un radicale cambiarnento della sua situazione economica giacché essa viveva in ristrettezze nella modesta casa di Rue de Romme con una pensione che le pagava mensilmente la Casa Reale di Francia, e qualche cosa che le rnandavano da Parigi i suoi figli Placido, Tomaso ed Antonio. Sarebbe stato necessario intanto che o lei o qualcuno dei suoi tornassero, anche per breve tempo, a Messina per mettere in ordine l’amministrazione dei cespiti restituiti, ed accudire alla esazione delle rendite di essi. Ma la nobildonna era nella assoluta impossibilità di muoversi per la grave età e per una
infermità che la costringeva sempre a letto. I figli, perché cittadini francesi, o anche perché molto bene sistemati a Parigi, non se la sentivano di intraprendere Un viaggio in Sicilia che a quei tempi sembrava, per la diffico1tà e lentezza delle comunicazioni, una avventura straordinaria. Cosi le cose rimasero in sospeso per qualche anno, cioè dalla data della avvenuta restituzione, che si protrasse fino al 1710 ed oltre, ai primi mesi del 1716. Durante questo periodo giungevano alla Duchessa
da Messina piccole somme che un agente incaricato le inviava come netto ricavo di rendite e di frutti. Ma ai primi del 1716 si presentò alla nobildonna in Marsiglia un messinese, già esule anche lui in Francia ove aveva fatto fortuna. Paolo Sergi, sedicente Conte Alberto Paolo Sergio, di cui farà parola, e le propose la seguente permuta di beni: egli avrebbe ceduto alla Duchessa una rendita di franchi 24.400 di capitale sul Comune di Parigi col frutto del 4 per cento, cioè di franchi 816, la Du-
chessa a sua volta avrebbe dato come contropartita tutti i beni che le erano stati restituiti dal Fisco, e quelli che in avvenire avrebbe potuto possedere sia mobili chi immobili, comprendendo nella permuta i titoli di Duca di Giovan Paolo e di Barone della Decima sulle mandre di pecore agnelli e capre di Taormina. La vecchia Signora fu in principio contraria a questa permuta, ma poi, sia per le insistenze del Sergi, sia per la sua mente vacillante per senilità, fini con accondiscendere, e il giorno 20 settembre 1716 in Marsiglia nella casa di Rue de Romme il notar Moisson di Marsiglia stipulò l’atto legale di permuta.
Tale atto venne allegato al contratto dotale stipulato il 23-1-1717 per le nozze tra Giovanna Sergi di Paolo suddetto e Giuseppe Avarna Duca di Belviso, contratto rogato dal notaio Giuseppe Chiatto di Messina, e del quale io ho preso visione nell’Archivio di Stato di Messina nel 1938 avendone anche copiato gli estremi.

Qualche notizia su Paolo Sergi e la sua famiglia

Paolo Sergi fu figlio di Francesco negoziante di seta in Messina, ed appartenne all’ordine civico. Sposo Donna Teresa La Rocca di nobilissima famiglia, e per questo suo matrimonio fu
tenuto in qualche considerazione dalla classe dei nobili, essendo la Casa La Rocca largamente imparentata con le più alte famiglie della aristocrazia. Tuttavia egli non fu mai ammesso nell’ordine Senatorio. Venuta la rivoluzione del 1674-78 i Sergi vi presero parte, e alla ritirata dei francesi partirono col convoglio del Maresciallo de La Feuillade. Dei Sergi si allontanarono, oltre Paolo e sua moglie Teresa, i seguenti suoi fratelli:
Andrea, chierico, Giuseppe, Ferdinando, il Sacerdote Don Francesco, Giovanni e Leonardo. Sbarcarono tutti a Marsiglia, ove rimasero in attesa di ordini da Parigi. Poi, per i noti incidenti
verificatisi a Marsiglia che provocarono la espulsione di moltissimi profughi dalla Francia, i Sergi insieme agli altri Si rifugiarono in Italia stabilendosi alcuni in Roma, altri in Genova ed in Firenze.
Paolo e sua moglie riuscirono a sfuggire alla intimazione di sfratto per alte protezioni di ufficiali superiori, di cui godevano, e si stabilirono a Parigi. Ivi cambio di punto in bianco la loro fortuna. Ebbero intanto una figlia a cui diedero il nome di Giovanna. Dopo qualche tempo si trova questa famiglia, salita molto dal punto di vista economico, stabilita signorilmente in un quartiere aristocratico: quello dei Teatini. Malgrado che la fortuna ed il benessere allietassero la loro casa, la pace e la concordia non regnarono tra i coniugi giacche appare che, per dissidi sorti tra essi, fu richiesta ai Tribunali della Senna la separazione legale. Paolo, per quelle metamorfisi che avvengono nelle grandi metropoli, specialmente se lontane dai luoghi di origine, divenne a Parigi il Conte Alberto Paolo Sergio, autogratificandosi del titolo comitale immaginario, aggiungendo al
suo nome di battesimo l’altro di Alberto, e cambiando il Sergi 

La Ducea di Belviso e La Vicecontea di Francavilla

Nel 1715 Don Giuseppe Avarna si era reso quisitore del titolo onorario di Duca di Belviso che nel 1680 era stato confiscato a Don Raimondo Marquett dichiarato ribelle. Egli in seguito acquistò a nome del figlio Andrea Avarna e Sergi il titolo di Visconte di Francavilla.
Questo antichissimo Stato era pervenuto in casa Ruffo nel 1627 per successione di Casa Balsamo, e nel 1674 ne era intestatario Don Carlo Ruffo dei Duchi di Bagnara per eredità della madre Donna Agata Balsamo. Avendo il detto Don Carlo preso attiva parte ai moti rivoluzionari del 1674-78 in Messina, fu dichiarato ribelle ed ebbe confiscata, con tutti gli altri beni che possedeva, la Vicecontea di Francavilla. Fu questo importante e ricco dominio feudale venduto dal Fisco a Don Stefano
Oneto. Tale vendita fu corroborata dal Regio Decreto di Carlo II in data 12-3-1682. Il titolo ed i feudi che componevano la Vicecontea rimasero quindi in Casa Oneto, e ne furono legittimamente e legalmente intestatari i discendenti del suddetto Don Stefano. Cionondimeno Don Giuseppe Avarna, Duca di Belviso, di cui sopra ho fatto parola, aveva avuto, per tramite dello zio, Sacerdote Don Francesco Avarna, nel 1704, da Don Carlo Ruffo esule a Roma, la donazione del titolo di Visconte di Francavilla ad honorem, titolo che venne intestato a Don Andrea Avarna e Sergi figlio di Don Giuseppe. Si venne cosi a verificare il caso che due famiglie diverse ebbero lo stesso titolo
o predicato, di cui una con annesso il feudo (Oneto), l’altra ad honorem (Avarna).
Oramai i coniugi Avarna-Sergi ed il boro figlia Andrea erano in possesso di due titoli ducali, di uno di Visconte e di una Baronia. Forse ritennero che fossero troppi, e preferirono alienarne qualcuno per far quattrini. Cosi per primo vendettero il titolo di Duca di Giovan Paolo a Don Vincenzo Paterno Castello Barone di Carcaci, che lo fece subito commutare in quello di Duca di Carcaci, e tuttora esiste in quella nobilissima Casa, e poi cedettero, per transazione di una lite, a DonFrancesco Balsamo ed alla moglie Donna Caterina Barrile la Decime delle pecore di Taormina col titolo di Barone, ciò nel 1750. Del quale titolo è oggi legalmente intestatario Don Salvatore de Lisi Marullo dei Principi di Castellaci, Cav. di Malta, già Vice Podesta di Messina. e Presidente del Circolo della Borsa. Tale titolo Baronale trasmissibile gli è pervenuto per successione della sua Ava Materna Donna Anna Balsamo Principessa di Castellaci e Baronessa della Stadera.
Trattennero gli Avarna-Sergi e tramandarono ai loro discendenti i titoli di Duca di Belviso e di Visconte di Francavilla. Questa famiglia si è estinta nel secolo scorso ed i titoli sono passati, per successione femminile, nella famiglia Canzano.

 

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