CAPITOLO II
LA CONTEA DI CONDOJANNI:
Il Conte Don Giovanni
Nel 1519 morì il Conte Don Tommaso e gli successe il figlio
primogenito Don Giovanni, il quale nello stesso anno ottenne
le investiture della Contea e degli altri Stati che
possedeva in Sicilia.
Fu egli un illustre personaggio per i suoi grandi meriti e
per la sua altissima posizione sociale e morale. Sposò Donna
Francesca Moncada e de Lune, figlia del Conte di
Caltanissetta Antonio Moncada, e di Leonora de Luna e
Salviati. Per questo matrimonio la Contea di Augusta, che
nel 1517 era stata venduta dal detto Conte di Caltanissetta
a Don Tommaso Marullo per 50.000 fiorini d’oro col patto di
riscatto, rimase in definitivo possesso dei Marullo perché
il padre della sposa cedette in dote, tra gli altri beni, a
Donna Francesca il diritto di riscattare la Contea.
Il Conte Giovanni fu Stratig6 nel 1535, e con grande sfarzo
e signorilità accolse l’Imperatore Carlo V fermatosi in
Messina in quell’anno per alcuni giorni nel suo viaggio di
ritorno dalla Africa.
Nel 1550 il Conte fu chiamato a reggere la carica di Preside
per tutte le Calabrie con sede in Cosenza. Dal suo
matrimonio con la Moncada nacquero tre figli: Vincenzo,
Francesco
e Leonora dei quali tratterò tra breve.
Rimasto vedovo ancora nella sua prima maturità Don Giovanni
passo a seconde nozze con una certa Bernardina di cui non si
conosce il casato per essere stato omesso anche nel
suosepolcro marmoreo. e dalla quale ebbe una figlia a nome
Antonia. Egli da tempo soffriva di gotta, e la malattia dove
certamente aggravarsi a causa del clima freddo ed umido di
Cosenza, ove dimorò qualche anno per il disimpegno della
carica di Preside delle Calabrie, alla quale, come si e
detto, era stato assunto nel 1550. Le sue condizioni di
salute rapidamente si aggravarono, e, per trovare il clima
più mite, da Cosenza fu trasferito nel suo castello di
Condojanni, ove la morte lo colse nel novembre 1556.
La sua salma fu, in esecuzione delle sue ultime volontà,
trasportata in Messina, e quivi inumata sotto 1’altare
Maggiore del Tempio del Carmine Maggiore. Nel chiostro della
stesso sacro edificio esisteva un bel sepolcro marmoreo che
conteneva le spoglie di Bernardina suddetta sua seconda
moglie, e della figlia Antonia .
I disastri tellurici hanno cancellato ogni traccia di questi
monumenti.
Del figlio secondogenito Francesco non ho notizia aver egli
avuto discendenza. La figlia Leonora nel 1545 andò sposa a
Don Gio. Batt. Borgia Principe di Squillace.
Il Conte Don
Vincenzo e le sue vicende
A Don
Giovanni successe il figlio primogenito Vincenzo il quale si
investi della contea nel 1557. Se egli aumentò il lustro
della famiglia con le sue azioni belliche e ha attiva parte
presa alla battaglia di Lepanto, non può essere taciuto che
la sua cattiva amministrazione e gli errati indirizzi della
sua vita familiare furono causa del declino della sua Casa,
declino che segnò il preludio della rovina completa
avveratasi pochi anni dopo la sua morte.
Preferendo egli la residenza di Napoli a quella di Messina,
era si da tempo, quasi stabilmente, trasferita nella
metropoli partenopea ove viveva la sua unica sorella Donna
Eleonora, andata sposa, come si è detto, a Don Gio. Batt.
Borgia principe di Squillace nel 1545.
E per sostenere in quella capitale il prestigio del suo nome
e del suo titolo, e non derogare da quel tenore di vita che
la stretta parentela coi Borgia e coi Principi d’Aragona
esigeva, fu obbligato a vivere in una cornice di sfarzo, con
cavalli, cocchi e numerosi servitori, prendendo parte alle
rillanti riunioni che i Viceré i gran signori napoletani e
spagnoli frequentemente offrivano nelle loro sontuose
dimore.
Egli era un uomo brillante, di bell’aspetto e di modi
squisiti. e gli fu facile contrarre un cospicuo matrimonio
con una nobile donzella di Casa Pignone, del Seggio di
Montagna.
Se tali nozze gli procurarono nuovi successi nel campo della
rigida e chiusa aristocrazia napoletana, e la aggregazione a
quel patriziato nello stesso Seggio di Montagna per
ductionem uxo-
ris, gli causarono d’altra parte nuovi e più importanti
dispendi. La Contea di Condojanni era vasta ma le sue
rendite non erano vistose; in Sicilia egli possedeva la
Baronia di Calatabiano, che dei suoi beni era il cespite
veramente redditizio, la Contea di Augusta che fruttava
pochissimo, ed alcune terre allodiali e burgensatiche nel
territorio di Messina, oltre il palazzo ereditato dai suoi
avi, che era ubicato nei pressi del Porto.
Queste rendite non potevano bastargli, e nel 1565 egli si
trovò costretto a vendere la Contea di Augusta a Federico
Staiti, sperando col ricavato di tale alienazione di
appianare la sua situazione economica che si presentava
tutt’altro che rosea.
Ma le contrarie circostanze che da li a poco si verificarono
resero nulla la dolorosa mutilazione subita da Don Vincenzo
con la perdita di Augusta.
Erano passati appena sette anni dal contratto stipulato con
Federico Staiti, e mentre il Marullo riteneva appianata in
modo definitivo la sua posizione economica, un nuovo
avvenimento lo spinse di bel nuovo nel mare procelloso delle
ingentissime spese e dei conseguenti debiti.
Alla metà del 1570 e primi del 1571 si preparava la
memorabile spedizione contro il Turco, spedizione che
doveva, con la grande battaglia di Lepanto, stroncare la
potenza marinara
ottomana. Da tutte le parti d’Italia accorreva volenteroso
il fior fiore della nobiltà. Era una continua gara per
offrire armi, navi, combattenti alla grande impresa. Don
Vincenzo Marullo, spirito animoso e battagliero,
espertissimo nella navigazione, non volle rimanere indietro
agli altri, e decise di intervenire personalmente alla
spedizione con l’apporto di una grande galera armata di
tutto punto.
Recatosi a Genova, grande emporio navale, vi acquistò una
grossa galera, la munì di artiglierie, la equipaggiò di
combattenti, di schiavi, di artefici, la forni di viveri per
una lunga navigazione, e, sotto il suo esperto comando di
provetto navigatore, la diresse verso il porto di Messina
nell’agosto del 1571 per unirla alla grande flotta cristiana
che quivi erasi radunata, in attesa dell’ordine di salpare
le ancore per andare incontro al nemico. Il Comandante
supremo della armata cristiana, Don
Giovanni d’Austria, in considerazione delle qua1ità ben note
di esperto navigatore e di valoroso combattente che
adornavano la nobilissima persona del Marullo, lo accolse
lietamente e lo
nominò Generale della Squadra dei Venturieri. Il 16
settembre usci in bell’ordine la spedizione dal porto di
Messina tra le acclamazioni e gli auguri della popolazione
peloritana accorsa sui moli per salutare i partenti. Don
Vincenzo pochi giorni prima di imbarcarsi volle donare al
suo unico figlio Giovan Battista la ricca Baronia di
Calatabiano con atto rogato in Notar. Pisci di Messina in
data 14 agosto 1571.
Le enormi spese che richiesero, sia l’acquisto della galera
sia il suo completo armamento ed equipaggiamento,
obbligarono l’intraprendente patrizio messinese a contrarre
nuovi onerosi debiti. Si rivolse per questo a due ricchi
feudatari che altre volte gli avevano fatto grossi prestiti:
Don GiovanVincenzo del Tufo marchese di Genziano, e don
Fabrizio Carafa marchese di Castelvetere.Ebbe da costoro Un
prestito di circa 120.000 ducati, somma garentita da ipoteca
sulla Contea di Condojanni.
Tornò Don Vincenzo dalla vittoriosa impresa di Lepanto
circondato da un alone di gloria per le rove di valore date,
e giunto in Messina ebbe tributati grandi onori dai suoi
concittadini e dalle autorità ma i debiti da lui contratti
gli rimasero assai gravosi sulle spalle perché egli ricusò,
come fecero quasi tutti i gran signori che avevano
partecipato alla impresa, non solo qualsiasi compenso, ma
anche la parte di bottino che gli spettava. La quale parte
era molto ingente perché ingentissimo era stato il bottino
preso alla sconfitta armata ottomana.Se il Marullo non
avesse obbedito all’orgoglio sarebbe stato in grado di
pagare i suoi creditori. Ma il destino aveva disposto che
quel grande patrimonio feudale dovesse da li a pochi anni
andare perduto.
Nel 1584 il conte Vincenzo, sentendosi ormai prossimo alla
fine, refutò la Contea al figlio Giovan Battista con i pesi
che sopra di essa gravavano, e non riservandosi cosa alcuna
tranne il titolo comitale sua vita natural durante. Gli
rimasero alcuni beni allodiali in Messina e la casa
palazzata in città ove morì nel 1586.
La vedova, dopo la sua morte, tornò a Napoli ove fini i suoi
giorni nel 1618. Il figlio Don Giovanni Battista fu un uomo
assai mediocre, e, forse per la sua inettitudine, oppure per
fatalità di eventi, vide il crollo della Casa.
Il Conte Don Giovan Battista
e la fine della linea primogenita.
Questo conte nel 1585, essendo ancora in vita il padre suo,
aveva perduto la Baronia di Catalabiano in forza di una
sentenza della Gran Corte di Sicilia che ne aveva assegnato
il possesso a Don Ferdinando Gravina Cruillas. Dopo pochi
anni, ad istanza dei suoi creditori, gli venne intimata
sentenza di espropria della Contea di Condojanni, che fu
messa ai pubblici incanti, e per renderne più facile
l’acquisto venne smembrata in vari lotti, composti ciascuno
da Terre popolate e feudi rustici.
La Terra del Bianco e quella di Condojanni vennero
aggiudicate a Don Fabrizio Carafa in soddisfo del suo
credito ipotecario di 72.000 scudi.
Altri concorrenti all’asta ebbero assegnate Crepacore,
Bovalino, Careri. Potomia. In seguito i Carafa acquistarono
a licitazione privata Bruzzano e Torre Bruzzano. La vendita
di questi beni fruttò complessivamente 130.000 scudi che
bastarono appena ad estinguere i debiti ipotecari gravanti
sulla Contea, e a Don Giovanni Battista non rimasero che
alcuni fondi di poco valore che in seguito alienò.
Intervenne su questa vendita il Regio Assenso, ma Sua Maestà
volle che al Marullo rimanesse ad honorem il titolo comitale
in memoria dei grandi servigi resi dai suoi avi alla Corona
di Napoli.
Don Giovanni Battista, che era rimasto celibe, morì in
Napoli nel 1629, nella casa che aveva ereditato dalla madre,
pasta nella contrada di Chiaia. Con lui si venne ad
estinguere la linea primogenita di Casa Marullo.
Il titolo comitale, per essergli stato riservato dal re sua
vitatantum, e non averlo i consanguinei delle linee
collaterali mai richiesto per rinnovazione, tornò
automaticamente alla Corona di Napoli, ed in tale situazione
rimase e tuttoggi rimane. Che il titolo suddetto non sia
stato concesso ad altra casata lo prova il fatto che in
nessuno dei Regi Cedolari, dal 1620 alla fine della
feudalità, è registrato il passaggio della intestazione di
Conte di Condojanni ad altra famiglia.
Si aggiunga che nello Elenco Ufficiale dei Titolati del
Regno di Napoli, compilato nel 1675, a tanti anni di
distanza dallo smembramento della Contea, questa rimaneva
intestata ai Marullo. La stessa intestazione si riscontra
nel Dizionario Topografico del Regno di Napoli compilato da
Lorenzo Giustiniani e stampato nel 1797 per ordine del
Governo Borbonico, quindi considerato pubblicazione
ufficiale.Dallo smembramento della Contea sorsero intanto
alcuni feudi nobili a favore di coloro che ne avevano
acquistato parte.
Tra tali feudi vanno ricordati I Ducati di Bruzzano e di
Precacore, e il Marchesato di Bovalino, titoli ancora oggi
esistenti.
Col ritorno del titolo di Conte alla Corona di Napoli, dato
che la linea che lo possedeva si estinse da secoli, è
inammissibile parlare di prelazione di linee collaterali più
o meno vicine all’ultimo investito. E nel caso di richiesta
di Rinnovaziorie,che rappresenta il solo Provvedimento
Nobiliare idoneo a far rivivere titoli tornati alla Corona,
farebbero solo gioco a favore del richiedente, la sua
situazione sociale e nobiliare ed i suoi meriti personali,
tenendo però sempre presente, a parità di attributi e di
requisiti personali, in una eventuale contestazione,il
diritto di priorità che scaturisce dalla anzianità di una
linea sulle altre derivanti tutte da un comune stipite.
Perche i Carafa Principi di
Roccella figurano intestatari del predicato di Condojanni
Chi
legge l’Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana trova che il
predicato di Condojanni risulta attribuito alla illustre
Casa Carafa di Roccella, patrizia napolitana. Questo fatto
potrebbe
a prima vista sembrare in contrasto con quello che nelle
precedenti righe ho affermato circa il non mai avvenuto
passaggio del nostro titolo comitale incardinato sul
predicato di Condojanni in altra casata. Credo quindi
opportuno fermarmi brevemente su questo punto per chiarire
gli eventuali dubbi e spiegare il perchè i Principi Carafa
ebbero attribuito il predicato di cui sopra.
Come nelle prime pagine di questo capitolo ho fatto
menzione,la concessione iniziale ottenuta dai Marullo in
Calabria Ultra, e confermata nel 1504 col Privilegio di
Ferdinando il Cattolico, era composta dalle seguenti otto
Terre: Bianco, Crepacore, Potomia, Torre Bruzzano, Motta
Bruzzano, Bovalino, Careri seu Pannuri, e Condojanni. Su
tale complesso di feudi, senza alcun pregiudizio nè per il
titolo baronale già esistente ab immemorabile sul Bianco, nè
per quello marchesale concesso dal Re Federico nel 1496, del
quale ultimo mi occuperò in altro capitolo, Ferdinando il
Cattolico aggiunse nel 1504 il titolo comitale concedendolo
su tutto il vasto dominio comprendente le otto Terre feudali
sopra elencate, il quale dominio feudale da allora prese il
nome di Contea di Condojanni. Tale denominazione non fu data
per la importanza del suddetto feudo,
ma solo perché esso era dotato di un buon castello
fortificato con in centro una grande torre quadrata (ancora
in parte esistente) circondata da alte muraglie. Il tutto
posto su un colle
lontano dalla marina e quindi in un certo qual modo poco
esposto alle frequenti incursioni dei pirati barbareschi che
infestavano in quei tempi i nostri mari.
In effetti la Terra di Condojanni non presentava alcuna
superiorità sulle altre che formavano la Contea, nè dal
punto di vista del reddito, nè da quello del numero dei suoi
fuochi.
E ciò si rileva dal Repertorio del Quinternione di Calabria
Ultra per l’anno 1585 in cui si legge che l’ultimo Conte,
Don Giovan Battista Marullo, era tassato per adoha delle
vane Terre formanti la Contea nella seguente misura:
Per Bianco in ducati 78.8.18
Per Bovalino in ducati 48.4.16
Per Condojanni in ducati 39.1.10
Per Careri in ducati 24.2.17
Per Potomia in ducati 24.4.16
Per Torre Bruzzano in ducati 23.4. 0
Per Crepacore in ducati 18.2.18
Per Motta Bruzzano in ducati 6.0.10
Complessivamente Ia tassa ammontava a ducati 258.20.10 oltre
quanta era davuta per Jus Tapeti, Capitania, Bajulazione e
Falangaggio .
Messa all’asta la Contea smembrata, come si è detto, in otto
lotti comprendenti ciascuno una delle otto Terre, Don
Fabrizio Carafa marchese di Castelvetere, in soddisfo del
suo credito ipotecario, si rese aggiudicataria del Bianco e
di Condojanni, e poi a licitazione privata comprò Motta
Bruzzano e Torre Bruzzano, la quale ultima in seguito fu
elevata a Ducea. Careri, Potomia, Bovalino e Crepacore
vennero all’asta aggiudicate ad altri creditori ed
acquirenti. Da allora i Carafa della
Spina, per successione del suddetto Don Fabrizio,
possedettero le quattro Terre sopracitate, come puri e
semplici feudi, tranne Torre Bruzzano che, come ho detto,
diveniva poi il Ducato di
Bruzzano. Esaminando infatti il Regio Cedolanio che va
dall’anno 1732 al 1766, a foglio 362 e seguenti Si legge <<
Illustris
<<Don Januanius Caraf a Duca Bruzzani, tenetur pro Castro-
<<vetere in Ducatis 99,2,10, Roccella in Ducatis 43,
Condojanni
<<in Ducatis 39,1,10, Bianco in Ducatis 78,2,18, Casale
Siderni
<<in Ducatis 31, etc. etc. >>
La stessa intestazione si trova nel Relevio del 1768 a
favore di Don Vincenzo Maria Carafa, il quale per Decreto di
Preambolo della Gran Corte della Vicaria, interposto a 3
Novembre
1767, fu dichiarato erede universale e particolare in
pheudalibus e titolaris del defunto suo padre Don Januanio
sopradetto.
Tutto ciò è confermato dal seguente Decreto della Regia Ca
mera della Sommaria:
<< Visis relatione magnifici Rationalis Regii Cedolari, fol.
<<11-19, et instantia Regi Fisci in calce ipsius, ac Apoca
Banci
<<fol. 20, per dominum militem D. Januanium de Ferdinando,
<<Regie Camere Summarie Presidentem et Commissarium, fuit
<<provisum et decretum quad, stante salutiane sequuta
ducato-
<<rum 8, assium 67, in beneficium Regie Curie, fiat
intestatio
<<in libris Regi Cedalani in faciem odierni illustris
Principis
<<Roccelle Don Vincentii Marie Carafa feudorum enunciato-
<<rum in dicta Relatione, et pro capite in eadem relatione
con-
<<tento expediatur mandatum iusta instantiam Regi Fisci. Hoc
<<suum etc etc; De Ferdinando - Genuino Actuarius
<<Certificandovi intanto del predetto, vi dicemo che per
<<esecuzione del suddetto preinserto decreto e precedente
istan-
<<za fiscale, dobbiate descrivere e far descrivere cosi
sopra i libri
<<del Regio Cedolario, come in ogni altro dove conviene,
tutti i
<<Feudi dalla suddetta preinserta Relazione portati in testa
<<dello illustre odierno Principe della Roccella, colla
istessa tassa
<<con la quale notati si trovano nelli stessi libri, e ciò
per futura
<<intelligenza e cautela cosi del Regio Fisco, che delle
parti.
<<Datum Neapoli ex Regia Camera Summarie, die 23 mensis
<<martii 1772 - Don Angelus Cavalcanti Magni Camerari Lo-
<<cumentenens, Januarius de Ferdinando - Vidit Fiscus, Joan-
<<nes Genoino Actuarius, Felix del Gesù Magister Actorum.>>
Segue la intestazione:
<< Et sic predictus illustris Princips Roccelle et Dux Bruz-
<<zano D. Vincentius Marie Carafa tenetur etc. etc.
<<Pro Motta Bruzzani in ducatis 6.10, Turri Bruzzani in
<<ducatis 23.4.3, Brancaleone in ducatis 91.1.15, Grupteria
in
<<ducatis 24, Castrovetere in ducatis 91.2 10, Roccelle in
du-
<<catis 43, Condo janni in ducatis 39.1.10, <<Blanco in
ducatis
<<78.2.18, Casale Siderni in ducatis 31.
<<OLEI Rationalis Generali - Die 20 mensis decembris 1780.>>
Sopravvenuta dopo pochi anni l’abolizione della feudalità il
sopra trascritto Relevio del 1780 rimase uno degli ultimi,
se non l’ultimo, sui beni di Casa Carafa che si leggono
trascritti
nei Regi Cedolani. E poichè alla metà del secolo scorso fu
istituita nel Regno delle Due Sicilie la Real Commissione
dei Titoli di Nobiltà, la famiglia Carafa, come fecero tutti
i titolati
e nobili del detto Regno, presentò alla suddetta
Commissione, che aveva sede in Napoli, tutti i documenti
atti a provare il suo diritto ai titoli e predicati di cui
si fregiava in forza delle leggi
allora vigenti. Apparendo dal Regio Cedolario del 1780 di
essere tale illustre Casato in possesso, tra tutti gli altri
feudi, di Condojanni, di Bianco, di Motta Bruzzano e di
Siderno, venne trascritta a suo favore la intestazione di
tali predicati senza però che su di essi fosse incardinato
nessun titolo nobiliare. Nello stesso tempo le furono
riconosciuti i seguenti titoli appoggiati a possessi
feudali: Principe di Roccella, Duca di Bruzzano, Marchese di
Castelvetere e di Brancaleone, e Conte di Grotteria.
La Consulta Araldica del Regno d’Italia, facendo proprie le
conclusioni e le deliberazioni della Real Commissione
Borbonica dei Titoli di Nobiltà, iscrisse negli Elenchi
Ufficiali della Nobiltà Italiana la suddetta famiglia Carafa
con i predicati sopra elencati. Questa è la ragione per la
quale il predicato di Condojanni figura attribuito ai
Principi Carafa di Roccella.Dopo quanto qui ho esposto,
basandomi su legali ed autentici documenti, non deve
rimanere alcun dubbio che Condojanni rappresenta e ricorda
due differenti domini feudali dei quali l’uno la vasta
Contea comprendente le otto Terre sopra enunciate, Contea
che fu esclusivamente della mia famiglia e non
passò mai ad altra casata, per la quale ragione ne portiamo
da secoli il predicato, l’altro rappresenta il possesso
della sola piccola Terra di Condojanni che alla abolizione
della feudalità risultò nei Regi Cedolari di pertinenza dei
Carafa della Spina.
Si tratta quindi di due ben differenti situazioni nobiliari
pur portanti lo stesso predicato, come tanti casi analoghi
si riscontrano sia nel Libro d’Oro come negli Elenchi
Ufficiali della Nobiltà Italiana. E pertanto nessuna
incompatibilità sussiste, ne eventuale abuso o lesione di
diritti ne per l’una ne per l’altra delle due famiglie che
dello stesso predicato de jure si fregiano.
Nel 1939 chiesi alla Consulta Araldica Italiana, con
l’appoggio di ampie documentazioni legali ed autentiche, la
Rinnovazione del titolo di Conte di Condojanni
trasmissibile, titolo che, come nelle pagine precedenti ho
affermato, allo smembramento della contea rimase per Sovrana
Risoluzione alla linea primogenita della mia famiglia che lo
possedeva e dopo la sua estinzione tornò alla Corona di
Napoli.La mia richiesta, dopo lungo esame da parte degli
organi competenti ufficiali aral-
dici, fu accolta favorevolmente, ed il Commissario del Re di
quel tempo, Prof. Pietro Fedele, nel 1940 nel comunicarmi
tale affermativa decisione, mi fece sapere che il Capo del
Governo,
Mussolini, voleva che prima di sottoporre il relativo
Decreto di Rinnovazione alla firma del Sovrano, io versassi
una oblazione di L. 200.000 a favore delle opere del regime
fascista per costi-
tuire due o più premi di nuzialità.
Questa
era peraltro nell’epoca del Ventennio la normale richiesta
che si praticava al Viminale nei confronti di coloro che
chiedevano Provvedimenti Nobiliari ma che, come me, non
potevano vantare benemerenze verso il Fascismo ne disporre
di protezioni a di amicizie di influenti gerarchi del
Regime. Risposi al Fedele ed al Cancelliere della Consulta
Araldica del tempo che per il momento non ero disposto a
sborsare la somma richiestami, ma che mi riservavo di
prendere in seguito una decisione. La verità invece è che la
proposta fattami mi sembrò quanta mai inopportuna giacchè
era inammissibile che per far rivivere un titolo nobiliare
di portata storica. Appartenuto
ai miei avi per tanti secoli, io dovessi comprarlo per lire
duecentomila come se si trattasse di una nuova concessione
fatta ad un nuovo nobile.
Gli eventi bellici di quegli anni ed i conseguenti
cambiamenti politici ed istituzionali troncarono ogni
ulteriore trattativa, e qualche anno fa ritirai dalla
Consulta Araldica tutto il prezioso materiale documentario
che avevo presentato a sostegno della mia richiesta, e lo
tengo nel mia archivio, augurandomi che a mio figlio
Vittorio o mio nipote Carlo, in un prossimo a lontano
avvenire, possano adoperarlo per riprendere questa pratica e
portarla felicemente in porto, la qual cosa non
è stata dal destino a me concessa.
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