L'opinione dell'Ambasciatore Carlo Marullo di Condojanni S.Agata Militello 20/07/2005 “La Guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fina dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente……… Nonostante tutti popoli aspirino alla pace, questa, quando viene conquistata, spesso non serve al popolo. In una visione pragmatica della pace e della guerra la prima è l’omicidio mascherato e la seconda, la guerra, è l’omicidio palese, ma, se così non fosse? Se fosse veramente possibile costruire un mondo senza guerra, cosa si dovrebbe fare per dare ai popoli una nuova società che dia valore all’uomo, in quanto tale, superando gli aspetti nazionalistici nel rispetto del diritto? Forse utopia quella abbiamo davanti ma, certamente, l’idea che si possa tendere ad una pace duratura anima gli uomini di buona volontà, certi che il diritto internazionale, fin qui, non ha generato risultati apprezzabili. Sorte migliore potrebbe toccare ad un diritto cosmopolita, come diritto degli individui che non solo portano con sé i diritti dei cittadini e delle singole comunità nazionali ma i diritti dei cittadini del mondo. Non vi è dubbio: lo strapotere dello stato moderno rappresenta una grande difficoltà alla pacificazione dei popoli e va quindi corretta ogni visione di stato di diritto che nel diritto genera infelicità ingiustizia e sofferenza. Sembra incredibile ma le stesse Nazioni Unite hanno reso non perseguibili dalla Corte Internazionale Penale (12.6.03 Consiglio di Sicurezza) i crimini dei soldati Usa che partecipano ad operazioni di mantenimento della pace. Palesemente è rimesso in discussione l’avvio di un ordine giuridico internazionale in grado di proteggere i diritti della persona. Il Trattato di Roma viene disapplicato mentre, al contrario, i trattati economici e commerciali sono applicati con cura. Se ciò avviene anche alle Nazioni Unite non vi è dubbio che va rovesciata la gerarchia delle norme internazionali a favore dei principi non mercantili e venga creato un consiglio di sicurezza economico e sociale a garanzia degli individui nei confronti delle manifestazioni deviate degli Stati più forti. In ogni caso le Nazioni Unite devono essere ritenute più che utili nel tentativo del mantenimento della pace. Esse hanno mantenuto l’ordine in Namibia, Salvador, Cambogia, Slavonia orientale, Mozambico e Cipro. Durante gli anni del mio impegno alle Nazioni Unite ho sentito più volte echeggiare le tragiche esperienze in Bosnia, in Somalia, in Ruanda. I fallimenti sono stati in gran parte imputabili al sistema stesso delle Nazioni Unite che, al di là delle decisioni, non riescono a realizzare gli obiettivi, per la debolezza conseguente alla natura volontaria e collettiva delle sue truppe. Differente l’efficacia degli interventi quando è affidata a forze nazionali: l’azione americana di Haiti nel 1994, i soccorsi australiani a Timor est nel 1999, l’intervento inglese in Sierra Leone nel 2000. Tutti modelli da utilizzare per il futuro. Per dissuadere dalle guerre e far arrivare alla pace gli uomini che impugnano armi, necessitano uomini più forti che posseggano più armi e migliori. Il futuro della pace risiede nel cambiare il sistema internazionale di risposta alle crisi, di per sé episodico e lento con altro fondato su principi riconosciuti, affidabile e decisivo, perché realizzato da professionisti abituati a difendere il proprio Paese. In questo senso la Comunità internazionale potrà migliorare l’efficacia delle sue azioni, attrezzando unità militari selezionate che possano muoversi tempestivamente per prevenire od arginare i conflitti. Questa può essere una via che ci permetta di pensare di perseguire i crimini di guerra e combattere ciò che è alla radice dei conflitti: il traffico di armi e la disperazione determinata dalla povertà. Infatti i recenti avvenimenti del 7 luglio di Londra mentre ci danno la dimensione della precarietà della difesa degli Stati, ci confermano come sia estremamente necessario studiare vie risolutive delle disuguaglianze, per togliere ossigeno al terrorismo internazionale, che proprio nella povertà trova manovalanza, anche qualificata, per i suoi crimini. Non è opponibile alla strategia del terrore solo la natura dello stato di diritto. Ne d’altra parte l’introduzione di leggi speciali e norme discriminatorie può essere la soluzione definitiva. Un tale modo di operare insospettisce certamente il cittadino degli Stati democratici e non risolve il problema, perché questo non è affrontato nelle sue cause. Gli Stati, che stanno sempre più rafforzando il proprio potere all’interno, con palese restrizione delle libertà individuali, devono necessariamente trovare un accordo per sostenere, nei Paesi dove il terrorismo trova linfa vitale una politica nuova che permetta la rivoluzione delle coscienze, l’attenuazione delle disuguaglianze e del sentimento di vendetta che può essere contrastato solo nell’acquisizione da parte dei deboli della consapevolezza che il crimine terroristico determinerà sottrazione di ricchezza al nucleo familiare di appartenenza degli adepti. Però se i popoli non progrediranno nel livello di benessere, qualsiasi norma restrittiva finirà col non avere una sua sanzione, infatti non è possibile togliere a chi già non ha nulla e vive nella disperazione del domani. Su questo bisognerà lavorare, attenti e ligi a non ledere i diritti umani con leggi speciali o eccezionali che, se del caso, devono avere una durata limitata nel tempo. Il tempo necessario per attuare le modifiche sociali che di per sé sottrarranno il terreno a coloro che della strategia del terrore vivono, alimentando l’odio ed avvilendo ogni dignità umana. Per contro è necessaria una fuga dalla povertà, con riduzione del debito dei Paesi più poveri, volto ad eliminare sussidi e dazi che danneggiano gli stessi Paesi in difficoltà. Bisogna dare potere economico a chi non ce l’ha. Questa è la chiave per uscire dalla povertà e dalle sue degenerazioni. Non sarà attraverso l’ONU, né attraverso i governi che ciò si potrà realizzare. Sarà necessario coinvolgere tutte le componenti sociali delle nazioni, sviluppando la capacità di dialogo e di lavoro insieme degli Stati, che si perverrà ad un progetto strategico congiunto per la crescita della sicurezza, nella quale si potrà realizzare, per tutti uno sviluppo equilibrato e sostenibile. Non si possono improvvisamente arrestare gli atti terroristici, ne possiamo eliminare tutti i nostri nemici, ne tanto meno occupare tutti i Paesi i cui governi ci sembrano ostili. Se guardiamo bene a ciò, ci rendiamo conto come molti degli sforzi attuali siano pura utopia e certa dilazione nel tempo di futuri più grandi rischi. Speriamo che i dialoghi in corso tra forti, e penso agli USA, all’Europa, ad Israele ed alla Palestina, gemmino proposte concilianti per i conflitti di religione e cultura che fanno da sfondo ai nostri tempi . Con quest’auspicio, lungi da soluzioni miracolose, intendiamo dare il nostro contributo al dibattito perché in coloro che vogliono ascoltare si faccia strada un necessario buon senso che eviti martiri e vittime nella considerazione delle rispettive dignità, con la consapevolezza che le guerre vanno spente se, ancora una volta non vogliamo concludere con le parole di Brecht: “La Guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fina dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente………”
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