CIRCOLO NAZIONALE DELL’UNIONE NAPOLI

“Le Nazioni Unite e la Protezione del diritti dell’Uomo

 attraverso la Diplomazia dell’Ordine di Malta”

IL DIRITTO UMANITARIO QUESTO SCONOSCIUTO

25 maggio 2000

 

 New York. Palazzo delle Nazioni Unite. L’Amb. Conte Don Carlo Marullo di Condojanni, Ricevitore del Comun Tesoro e Capo della Missione Diplomatica dell’Ordine, con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali, in occasione dell’ammissione del Sovrano Ordine come Osservatore all’’Assemblea Generale, a seguito della risoluzione emessa dall’Assemblea il 24 agosto 1994.

New York. Ambassador Count Don Carlo Marullo di Condojanni, Permanent Observer of the Order to the United Nations and Receiver of the Common Treasure, during the audience at the UN headquarters with the Secretary General of the Assembly, Boutros Boutros-Ghali. Ambassador Marullo.  

 

Il diritto umanitario ritrova le sue lontane origini in comportamenti in sé non doverosi, la cui mancata osservanza, per lo più, veniva sanzionata sul piano delle credenze religiose, cosicché, ad esempio, la violazione del principio “non uccidere” trovava la sua sanzione naturale nella vendetta divina, che poi si realizzava con eventi dannosi per il singolo e per la collettività., nascenti, da una parte, dall’ansia e dalla difficoltà di comportamento conseguente alla vita in comune, dall’altra, dal sopravvenire di eventi magici, premonitori di calamità naturali o di eventi sconvolgenti provocati dall’uomo, come le guerre.

Bisogna attendere millenni e arrivare al diritto romano, perché sia concepito in testa al singolo la titolarità di aspettative di comportamenti nascenti dalla norma giuridica positiva.

Bisogna attendere ancora molto tempo, ed arrivare al secolo passato, perché maturino embrioni di tutela del singolo e si giunga ad una definizione del termine “umanitario” legato sempre alla parola persona, in base alla quale ogni individuo, per lo più in dipendenza di principi religiosi e morali, offriva il proprio aiuto ai suoi simili che, coinvolti soprattutto in guerre, soggiacevano inermi al nemico vittorioso. Tali comportamenti hanno certamente condizionato non solo la condotta degli individui, ma anche quella degli Stati che andavano formando la comunità internazionale la cui nascita è abbastanza recente.

I principi umanitari pertanto trovano la loro prima applicazione moderna, nel trattamento dei vinti, dei feriti e dei prigionieri di guerra. Lo Stato vincitore doveva prendersi cura dei soldati nemici senza distinzione di religione o nazionalità.

Sebbene il modo di fare la guerra sia molto cambiato, le conseguenze negative per le persone, oggi, non si sono certo ridotte e la necessità di regolamentare per iscritto la condotta degli Stati nei confronti delle vittime della guerra ha dato luogo ad un complesso di norme volte a proteggere la persona umana che si trova in grave pericolo. Il termine umanitario un tempo, come detto, legato all’individuo, viene ora preceduto dalla parola diritto. Nasce il Diritto Umanitario.

II 22 agosto 1864 a Ginevra viene firmata una convenzione diretta alla protezione dell’individuo coinvolto in situazioni provocate dall’uomo. Tale convenzione è la pietra miliare dell’odierno diritto umanitario. Da questa convenzione deriva quello che più tardi, nel 1949, verrà chiamato diritto di Ginevra in contrapposizione a quello denominato diritto dell’Aia che invece, in precedenza, regolamentava l’uso delle armi e dei metodi di guerra al fine di limitare al minimo danni bellici.

Non ci dilunghiamo in questa sede sulla differenza di impostazione delle due convenzioni che diedero luogo a tali due tipi di diritto: non vi è dubbio però che entrambe erano dirette a proteggere la persona umana; le une regolavano la condotta delle operazioni militari, le altre il trattamento umanitario delle vittime di guerra.

Bisogna arrivare al 1977 perché il diritto di Ginevra si evolva con due protocolli addizionali, il primo diretto alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, il secondo quello dei conflitti armati non internazionali. Solo di recente, le espressioni diritto dell’Aia e diritto di Ginevra lasciano il posto al termine “diritto umanitario”

Ne consegue che oggi col termine “umanitario” viene indicata, a differenza dei secoli precedenti, ogni azione dell’uomo diretta ad aiutare il proprio simile che si ritrova in situazioni di grave pericolo, tali da sottrarre i beni essenziali della persona umana: in primo luogo la vita e, con la relativa gradualità, tutta quanta determina ingiustificate sofferenze e disagio di esistenza.

Siamo ancora in presenza di un diritto umanitario che comprende le norme sui rifugiati, sul genocidio e tende a tutelare quelle situazioni nelle quali la dignità della persona umana deve essere rispettata e/o riabilitata.

Da questa concezione a quella più ampia di questi giorni, il passo è  immenso, infatti oggi col diritto umanitario s’identifica l’insieme delle regole e dei principi volti a salvaguardare in ogni tempo e in tutte le circostanze i diritti essenziali e la dignità. della persona umana. Forse la maggior parte di voi ritiene che un tale principio fosse consolidato da secoli, e forse da millenni: ebbene no. La comunità internazionale solo nell’ultimo decennio è riuscita ad accogliere la definizione appena riferita.

Per brevità di tempo non citerò tutte le convenzioni evolutive del diritto dell’Aia e del Diritto di Ginevra, però ritengo utile accennare a come il diritto umanitario si sia sviluppato lentamente sul piano internazionale. Tentando una prima approssimazione dobbiamo amaramente constatare come molti Stati non abbiano ancora aderito agli strumenti convenzionali, conseguenti alla convenzione di Ginevra nel 1977 anche se tali principi rivestono carattere morale e sono alla base di tutta la normativa umanitaria.

Un corpo organico di norme, se accettato da tutti, avrebbe il vantaggio di offrire agli Stati una normativa più rispondente alle esigenze di immediatezza in gravi emergenze. A tutti gli Stati dovrebbe incombere l’obbligo di predisporre, in tempo di pace, le misure necessarie per attuare, in tempo di guerra, quanto previsto nei precetti di diritto umanitario. Purtroppo ciò non si verifica e quel che è peggio, si verifica ancora meno nel caso delle guerre civili e in quelle situazioni nelle quali, pur senza evento bellico, ma con sconvolgimento economico, sociale e morale, si avvicendano le classi di potere, determinando in un territorio, attraverso l’azione di poteri forti e deviati, metamorfosi  che, in via generale, producono non solo ingiustizie ma violenze e sofferenze sul piano della integrità fisica e psichica degli individui.

Il diritto umanitario internazionale, nonostante tutto, sta per acquisire un suo ambito indipendente quale ramo del diritto pubblico internazionale, in modo analogo al diritto penale e a quello tributario.

Un particolare che non va trascurato riguarda la distinzione tra il diritto umanitario che si occupa dei rapporti tra gli Stati e quelli che comunemente sono chiamati i diritti dell’uomo, che invece riguardano i rapporti tra individuo e Stato. Con riferimento a questi ultimi, bisogna anche concepire l’idea che tali diritti hanno rilevanza non soltanto nei rapporti con lo Stato, ma anche nei rapporti inter­individuali: è questo l’anello di congiunzione tra diritto umanitario e diritti dell’uomo che sempre più, oggi, vengono invocati. Il sistema dei diritti dell’uomo, se trae la sua origine da accordi internazionali, in realtà poi si allarga e coinvolge non soltanto le parti convenzionali contraenti, ma tutti coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione e cioè tutti gli individui che in qualche modo entrano in rapporto con lo Stato. Pertanto i diritti dell’uomo ricevono una applicazione “erga omnes”, mentre il diritto internazionale umanitario, avendo natura pattizia, è applicabile fra Stati contraenti del medesimo accordo.

Un’altra considerazione può farsi con riguardo agli aspetti sanzionatori: le norme sui diritti dell’uomo non si occupano, se non mediante rinvio, della sanzione conseguente alla violazione: il diritto internazionale umanitario, per contro, se ne occupa direttamente, codificando le sanzioni negli stessi accordi.

Peraltro è stato elaborato anche il concetto di giurisdizione universale, con cui si indica la competenza di qualsiasi voglia Stato a giudicare un cittadino di diverso Stato per crimini commessi al di fuori del suo territorio.

Solo i crimini più gravi sono sottoposti alla giurisdizione universale. Vi rientrano infatti i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità (atrocità commesse su larga scala) e le violazioni all’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (omicidi di persone indifese, torture, cattura di ostaggi, trattamenti inumani e degradanti inflitti ai prigionieri, esecuzioni di pene capitali senza processo).

La giurisdizione universale è prevista in una serie di trattati e di convenzioni internazionali, come la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, le Convenzioni di Ginevra del 1949 ed il Primo Protocollo aggiuntivo di esse.

Dette normative di diritto internazionale vincolano gli Stati a prevedere nell’ordinamento interno la giurisdizione universale e ad esercitarla nei casi previsti, oppure a consegnare le persone accusate di gravi crimini contro il diritto internazionale umanitario ai tribunali di altri Paesi che ne facciano richiesta o a tribunali internazionali competenti a giudicarli.

L’applicazione effettiva della giurisdizione universale è però fortemente condizionata da ragioni di opportunità politica, anche se dissimulate da apparenti motivazioni giuridiche: ad esempio, il comando dell’Ifor, in Bosnia Erzegovina, ha risposto alle richieste pervenutegli di arrestare una serie di persone incriminate dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia che risultavano residenti nei territori sottoposti al suo controllo affermando la propria incompetenza in quanto soggetto non firmatario delle Convenzioni di Ginevra.

Un altro caso ascrivibile al tema della giurisdizione universale, anch’esso conclusosi con un nulla di fatto, è il fermo, avvenuto nell’ottobre del 1998, di Augusto Pinochet nel Regno Unito, su richiesta della giustizia spagnola.

Pare evidente che l’alternativa tra il primato della politica (tesa al mantenimento o perseguimento della pace e degli equilibri internazionali) e quello del diritto umanitario internazionale (teso a perseguire gli autori di crimini gravissimi) assume, per certi versi, i connotati di una scelta tragica, a riguardo della quale non è sempre detto che l’opzione più rispettosa dei principi del diritto internazionale sia, nel contempo, quella migliore dal punto di vista della protezione delle popolazioni a rischio.

Se è dunque prematuro parlare di un sistema di diritto penale internazionale è però vero che negli ultimi anni si sono fatti passi avanti e solo di recente, nel 1998 è stato creato un tribunale penale internazionale al quale fino ad oggi hanno però aderito solo l’Italia e otto Stati di non primaria importanza, dimostrando così lo scarso interesse della comunità. internazionale per un problema che è percepito pressoché esclusivamente in termini strettamente politici.

Ma lasciamo alla dottrina e agli internazionalisti puri oltre che agli uomini di scienza e di politica, il compito di formulare proposte per il futuro. A noi, in questa sede, non resta che ribadire, dando contenuto al diritto umanitario e ai diritti dell’uomo, come lo scenario sia abbastanza desolante per i popoli travolti dalla guerra, per coloro che, ultimi, attendono il rispetto della loro persona sia sul piano della giustizia che sul piano vero e proprio della qualità della vita.

Di recente ho avuto occasione di trattare, in un altro forum, il problema dei diritti dell’uomo nel sistema penale: quale disagio, quale amarezza, nel constatare come vi sia il deserto, e dove l’uomo è solo ed esposto alle povertà di altri uomini.

Gli oratori che mi hanno preceduto si sono riferiti a fatti concreti ed anch’io vorrei concludere questo intervento tornando ad uno degli aspetti più eclatanti della violazione dei diritti umani in molti paesi, purtroppo non escluso il nostro, dove non vi è certo la guerra, né tanto meno la guerra civile ma anzi vi è una civiltà considerata evoluta, che però paga un prezzo altissimo nell’evoluzione democratica con l’uso dei poteri dello Stato che produce infelicità, ingiustizie e sofferenze.

Quanti sono oggi i reclusi nelle nostre carceri? Le cifre ufficiali parlano di 50.000; quello che è certo è che oltre il 40% dei carcerati è in esubero rispetto ai posti disponibili nel sistema carcerario. Tra questi, molti sono detenuti per reati minori. Il nostro paese,  per una non chiara politica sul piano giudiziario si rifiuta di adottare un provvedimento di clemenza (amnistia o indulto) che risolverebbe problemi legati al trattamento umano del detenuto, in regime di sovraffollamento nelle case di detenzione. Si rifiutano, perché proprio per reati minori potrebbero acquisire l’impunità soggetti che il sistema politico vuole escludere dal consesso civile

Purtroppo i sistemi giudiziari non assolvono fisiologicamente al loro scopo. Magistrati inquirenti diventano giudicanti e viceversa. Spesso il giudicante usa metodi e procedure proprie del magistrato inquirente e ciò gli sembra legittimo perché rientra nel suo bagaglio culturale. La contiguità, il comune sentire e la fungibilità delle funzioni implicano che l’inquirente attinga ad una sua cultura indagante e il giudicante ad una sua cultura della giustizia, e come l’uno per in principio ispirato al modello accusatorio non potrà essere considerato una vera parte, così l’altro non potrà. mai assumere la funzione della terzietà, che rappresenta la premessa indispensabile per poter essere imparziali. Il panorama è sconsolante, gli individui vengono tenuti per anni in restrizione, spesso inumana, senza che si celebri il processo.

Qualche volta il Magistrato inquirente travalica il limite della notizia criminale e va egli stesso alla ricerca di ipotesi di reato al fine di imporre una custodia preventiva: in realtà proprio certi provvedimenti, sanciscono il fallimento dello Stato il quale, fatta eccezione per la pericolosità, dovrebbe essere da solo capace di evitare l’inquinamento delle prove, e dovrebbe lasciare l’indiziato libero di ricercare, proprio nell’imminenza del fatto, le prove a propria difesa che spesso a distanza di tempo non sono più reperibili.

Il principio proprio di ogni civiltà giuridica, secondo il quale è colpevole solo chi sia stato condannato con sentenza definitiva, è dunque, di fatto, capovolto in quello aberrante secondo il quale esiste bensì una presunzione ma non già di innocenza, quanto piuttosto di colpevolezza, che giustifica il protrarsi della custodia in offesa di prove accusatorie.

Anche l’automaticità temporale delle carriere dei magistrati è anomala, specie allorquando gli stessi sono chiamati ad operare nello stesso ambiente da cui provengono e dove svolgono la loro vita sociale. Forse sarebbe meglio pensare a carriere basate sul controllo di merito, celerità delle indagini, quantità di sentenze pronunciate e confermate o non, in ultima istanza. Neanche quando la magistratura assurge al carattere metagiuridico nella persecuzione dei crimini sul piano moralistico, tendente a dare corpo all’utopia del desiderio di costruire una società ideale, il risultato, pur se onesto, è migliore. Difatti dietro l’angolo vi è la commistione tra la funzione giurisdizionale, quella legislativa e quella esecutiva.

Questa confusione è tanto più inaccettabile quando colui cui è affidato il compito di accusare non sia poi soggetto al controllo ad opera della collettività, così come avviene sempre per il potere legislativo e talvolta per quello esecutivo.

La piaga è aperta e la confusione dei ruoli diventa assoluta allorquando ai magistrati è concesso di entrare in politica, militando in un partito per poi ritornare a svolgere la funzione giurisdizionale una volta finito l’esercizio di quella legislativa. L’incompatibilità è palese: come può il militante di un partito politico essere imparziale, divenuto di nuovo magistrato, con i propri avversari? Eppure in molti casi è così.

Credo non vi sia altro da aggiungere. Forse c’è qualcosa da domandarsi: il nuovo millennio è appena cominciato e la tragedia umana si consuma oggi più di ieri; eppure scienza e tecnologia forniscono grandi aiuti agli uomini di buona volontà. Quanti di questi ogni giorno si rendono conto ed operano nel rispetto della dignità umana? Tutti noi, io credo, dovremmo porci la problematica del rispetto dei diritti umani nel quotidiano, senza indulgere ad atteggiamenti di compromesso, facendo finta di non vedere perché non coinvolti. Quello che capita agli altri può capitare a noi, alle nostre famiglie, ai nostri figli. Dobbiamo impegnarci tutti per dare il giusto spazio alle tematiche umanitarie, sollecitando nelle sedi opportune ed attraverso la testimonianza individuale, la sottoscrizione degli impegni internazionali da parte degli Stati.

Se così non faremo nel momento in cui le tragedie ci dovessero toccare, e non lo auguro a nessuno, dovremo interrogarci sul perché nulla abbiamo fatto quando eravamo ancora in tempo.

Qualcuno di noi potrà sentirsi dire dai figli: “Papà, tu dov’eri?”

 

 Palermo. Il Treno Sanitario dell’Ordine in occasione della Mostra Itinerante allestita dal Corpo Militare dell’Associazione Italiana a Palermo e a Messina in marzo e aprile 2000.